venerdì,Aprile 19 2024

Gioia Tauro come Gomorra. Sommozzatori militari e chimici sudamericani assoldati per recuperare e raffinare la cocaina: «Qui ci ammazzeranno»

Le indagini svelano come il gruppo riconducibile a Rocco Molè avesse fatto giungere sulla Piana chimici esperti e militari peruviani specializzati nelle immersioni: tenuti segretati in casa senza telefoni e fatti uscire solo per lavorare con auto staffetta. Le intercettazioni svelano piani e paure

Gioia Tauro come Gomorra. Sommozzatori militari e chimici sudamericani assoldati per recuperare e raffinare la cocaina: «Qui ci ammazzeranno»

Sembrano frammenti venuti fuori dalla sceneggiatura di Gomorra: prendi un gruppo di narcotrafficanti internazionali, mettici ingenti quantità di sostanza stupefacente e una base logistica. Poi prendi tre super esperti, di quelli che provengono dritti dal Sud America e che, in Italia, vivono quasi sotto sequestro per portare a termine il lavoro. Sono dei chimici ed hanno il compito di ottenere il massimo dalla droga acquistata. Droga che, almeno in qualche caso, viene recuperata da tre uomini venuti da molto lontano, dalla terra del Perù. Esperti in immersioni e molto abili con le armi. Con loro hanno i tesserini della Marina Militare peruviana e della Guardia Costiera. Ce ne sarebbe quanto basta per mettere in piedi una fiction di successo sul modello “Narcos”, ma questa volta l’ambientazione non è l’America del Sud. Siamo in Italia, in Calabria ed a Gioia Tauro in particolare. Siamo nella terra del Porto, infrastruttura che – nonostante controlli serratissimi – continua, anche solo indirettamente – a rappresentare una fonte per l’approvvigionamento della droga. E così accade che quella che può apparire come una elaborata sceneggiatura di un film, in realtà, è qualcosa che accade davvero tra le strade dissestate della Piana di Gioia Tauro, con un occhio al Mar Tirreno che si apre all’intero Mediterraneo.

E il quadro delineato dal gip Tommasina Cotroneo racconta proprio questo: la resurrezione criminale di una cosca che sembrava aver conosciuto il suo punto più basso. Poi, però, il rampollo della famiglia, quello che da giovanissimo aveva anche aderito ad un programma di allontanamento dalle sue origini, proprio allo scopo di evitargli di diventare un boss, torna a Gioia Tauro e decide che è tempo di prendere le redini del clan, aiutato dai consigli del nonno. Così, mattone dopo mattone, rimette insieme i pezzi di un puzzle che era andato in frantumi 13 anni prima, con l’omicidio del suo omonimo, Rocco Molè, trucidato nella sua minicar come per sancire la rottura di un’alleanza durata decenni.

Ma “Roccuzzo” Molè, secondo quanto sostenuto dalla Dda di Reggio Calabria nell’inchiesta portata a termine, è riuscito nel suo intento: riorganizzare la sua famiglia e farla diventare il centro nevralgico di un traffico internazionale di stupefacenti. Con due particolarità: un laboratorio chimico con sede a Gioia Tauro e l’obiettivo di tagliare la cocaina nel modo più conveniente possibile e grazie a mani esperte; un’attività di recupero della droga utilizzando dei palombari dalle riconosciute capacità. Queste sono le due direttrici attorno alle quali si è mossa l’inchiesta “Nuova narcos europea”.

Il laboratorio chimico

È una organizzazione a tre punte quella capeggiata, secondo l’accusa, da Rocco Molè e Giuseppe Condello: Sud America, Spagna e Italia. L’obiettivo è importare in Europa tutta la cocaina possibile. Sono i narcotrafficanti iberici a mettere a disposizione degli italiani alcuni chimici, con il compito di allestire un laboratorio per la raffinazione della cocaina. E, stando alle valutazioni del gip, non si tratta di un quantitativo esiguo, in ragione del rilevante meccanismo di uomini e mezzi predisposto ed avviato all’occorrenza: tre chimici esperti, l’impiego di 25 chilogrammi di acido, due forni microonde e una pressa in uno al comparto soggettivo gioiese che si muoveva intorno ed a sostegno della fabbrica di estrazione e raffinazione. Le indagini documentano tutti i passaggi più importanti: l’arrivo dei chimici a Gioia Tauro, il loro accompagnamento nelle campagne della Piana, l’acquisto di tutti gli strumenti necessari come pressa, forni e acido. E poi la predisposizione della base logistica individuata in un appartamento di via Gorizia, a Gioia Tauro, oltre che nelle campagne dove si tiene parte dell’attività.

Sequestrati tra casa e lavoro

Sono Javier e Kevin a raccontarsi quello che hanno vissuto, in una conversazione che fa emergere uno spaccato di particolare interesse investigativo, tanto da portare il gip a parlare di «chiarezza disarmante». I due stranieri, infatti, sono sostanzialmente sequestrati dai gioiesi, che impediscono di uscire, avere contatti telefonici con il mondo esterno, avendo cura di portare loro stessi –  i gioiesi – da mangiare. Lo confermano le intercettazioni di Rocco Molè: «Vengo io a prendere il mangiare e portare a casa». Anche riaccompagnarli necessita di attenzione: vi è un continuo scambio di autovettura, in aperta campagna, dove si svolge parte del lavoro. L’ansia che accompagna quei momenti viene confermata da Alanes che parla con Javier: «Però c’è stata molta ansia. È stata la stessa cosa che hanno fatto con noi, ci hanno messo dentro la campagna, cambio di macchina e tutto». Sono cautele eccezionali che non ammettono l’uso del cellulare. A confermarlo al colombiano è Molè: «Con il telefono si può mettere il traduttore» … «Ora prendiamo uno. Noi no telefono! No telefono! Niente»… «Il telefono è la rovina, è la rovina». Agli stranieri viene inibito anche di uscire di casa, poiché la loro presenza sul territorio non deve destare sospetto. È sempre Javier a raccontarlo a Kevin: «Eravamo sempre nascosti, solo macchina, come un film, sembrava un film, cambiavamo di macchina e così, fino ad arrivare al punto… e tutto così diverso dentro la campagna, e poi s’informava… perché uno era davanti e controllava se c’era la Polizia, perché lì la polizia è cattiva».

Il lavoro sulla cocaina

È sempre Javier, nella sua conversazione con Kevin, a raccontare di come, in effetti, il colombiano non riuscisse a soddisfarlo più di tanto nel suo lavoro. «Il colombiano era principiante, io pensavo che fosse… perché i colombiani sono bravi chimici. Quest’uomo la prendeva (la coca, ndr) e la cominciava a lavare… cioè metteva troppo acetone in un secchio e la metteva e la lavava e io gli dicevo: “Così se ne andrà tutta!”. E lui: «No, io ho parlato con lui e a lui quello non interessa». Il rischio, insomma, è che l’eccessivo spreco di cocaina comportasse una non adeguata remunerazione: «Io gli ho detto “Non ci pagheranno nulla, se se ne va tutta, non ci pagheranno nulla!”. E lui mi diceva: “È così questo è il mio lavoro, io lavoro così” e gli ho detto “tu devi lavorare e sempre curare gli interessi del proprietario, questo è importante, altrimenti chi ti pagherà?” E gli dicevo: “Si deve fare più secca” e lui: “No, io faccio così il mio lavoro”. Dopo abbiamo misurato e ho detto: “Non va bene, non andrà mai bene” e alla fine mi ha seguito e l’ha fatta un po’ secca, altrimenti quanto avrebbe perso». Ora, a giudizio del gip, il riferimento a “lavarla”, all’acetone ed al farla più secca «conducono senza dubbio alcuno a ritenere che di lavorazione di cocaina si trattava». Peraltro l’acquisto di 25 chilogrammi di cloruro di calcio e il trasporto dove stavano il peruviano e il colombiano fanno intendere come si trattasse di cocaina, essendo il cloruro utilizzato generalmente per il processo di raffinazione della coca. Le conversazioni intercettate confermano come si parlasse proprio di attività legate alla lavorazione della droga, riguardando l’uso del forno microonde, la predisposizione dei panetti e le formine per il logo da apporre. Logo che, si scoprirà sempre dalle intercettazioni evocava simboli massonici.

Gli investigatori sono riusciti ad immortalare anche le successive attività dei chimici che sono partiti da Gioia Tauro, dopo aver finito il loro lavoro, prendo pullman o treni per altre città italiane. Occasione nella quale saranno poi controllati ed identificati.

Ma anche i chimici, sebbene esperti, avevano paura. In particolare il colombiano, come spiega Javier: «E allora è arrivato il colombiano spaventato, è arrivato solo il colombiano, anche a lui avevano fatto la stessa impressione. E allora il colombiano mi dice Umh! Finalmente ascolto qualcuno che parla spagnolo!” mi dice: “non capisco nulla di quello che parlano”… e tutti a lavorare, un giorno mancava poco di finire di lavorare e mi diceva: “Sai cosa succede? Che questo posto”…. Io non sapevo cosa voleva dire… “qui, qui ci ammazzeranno” ha detto. “O ci ammazzano e ci lasciano liberi” non stare a parlare di stupidaggini… sì… (inc.) a piangere. Il colombiano era troppo spaventato».

I militari peruviani per recuperare la coca

Non solo chimici, ma anche palombari. È quello di cui si sarebbe servita la cosca Molè per recuperare lo stupefacente in alto mare a Gioia Tauro, con il medesimo modus operandi verificatosi per i chimici. I tre palombari sono stati fatti alloggiare all’interno di un appartamento di via Stesicoro nel quale veniva loro fornito anche il vitto da parte degli uomini di Molè.

Emblematico, a giudizio del gip, è il riferimento degli indagati calabresi all’acquisto di attrezzature da pesca, al fine di simulare un’attività al porto di Gioia Tauro, alla quale, per stessa ammissione dei protagonisti, nessuno di loro si era mai interessato. In ogni caso, si erano procurati tutto il necessario per far finta di dover pescare e così non destare sospetto. Oltre ad essersi procurati anche un’autovettura “pulita” con la quale accedere al pontile. Una simulazione ben fatta che però faceva dire all’uomo che aveva acquistato l’attrezzatura: «A noi ci ha fatto tutte cose 130, a noi però, due canne in carbonio… portatemi al campo veloce… ragazzi, però non rompetele che è un peccato, queste canne, ehm… va bene che a voi che cazzo v’interessa delle canne… però… in questa busta ci sono le palature, ve li devo montare io queste ma secondo me se beccate qualche pesce rompete anche le canne… lì ci sono i anche i saraghi al Porto».

Il 13 novembre 2019 è un giorno frenetico per Rocco Molè e Simone Ficarra. Questi devono prevedere degli indumenti per cambiarsi successivamente, fra cui un paio di stivali; il cambio dell’autovettura monitorata dagli investigatori; il prelievo intorno alle 19 dei due ospiti di via Stesicoro identificati poi in Angello Gianpierre Delgado Corbetto e Kevin Cesar Valverde Huaranga.

Il rientro dei due avverrà solo il giorno successivo nel tardo pomeriggio. È in quel momento che torneranno nell’appartamento dove erano tenuti di fatto “segregati”. Una situazione chiarita anche dalla circostanza che erano gli uomini di Molè ad occuparsi del vitto dei due, come già accaduto per i chimici: «Sai dove sta di casa Antonio Ficarra? Mica era Simone, sai dove sta Antonio Ficarra? – chiede uno degli indagati – Vai a prendere due pizze margherite da qualche parte e portagliele lì. Suona, apri e glieli metti sopra il piano… due pizze come vuoi tu, margherita… come vuoi tu».

Il 16 novembre 2019 gli inquirenti registrano l’arrivo del terzo peruviano, Nilton Cesar Ccaico Tacuri. Anche lui sarà accompagnato nell’appartamento di via Stesicoro.

L’irruzione nell’appartamento

Il 20 novembre successivo, i tre peruviani vengono accompagnati, alle prime luci dell’alba, al parco commerciale dell’Annunziata per essere poi prelevati da una Fiat Panda bianca, facendo ritorno nell’appartamento solo a tarda serata. È, dunque, la seconda uscita dei peruviani. Così, il 29 novembre, gli investigatori decidono di fare irruzione nell’appartamento per identificare i tre, scoprendo come questi avessero dei documenti di appartenenza alla marina militare peruviana ed alla guardia costiera. Nell’occasione viene piazzata anche una microspia, le cui captazioni portano a comprendere come i tre si fossero attivati per contattare il “negro” tramite Facebook. L’indicazione che arriva dal capo è chiara: di lì a breve sarebbero andati a prenderli e si sarebbero dovuti disfare di telefoni e indumenti, non dicendo assolutamente ai gioiesi di aver usato il telefono: «Ascoltatemi, verranno a prenderci adesso, e non dovete dire che noi siamo stati a parlare al telefono e quelle cose… quello che dobbiamo fare adesso e dobbiamo spegnere i telefoni adesso, dobbiamo buttare tutto: vestiti, scarpe, tutto quello che abbiamo dobbiamo tenere solo quello più importante in mano. Adesso verranno a prenderci… e tutto quant’altro si deve eliminare tutto, immagino che anche i telefoni, tutto…». In questo contesto arriva la clamorosa conferma del tipo di attività da effettuare. Valverde, infatti, si domanda se risultasse confermato il recupero della cocaina per la notte successiva: «Però la cocaina… domani notte», mentre Delgado rinviava ogni risposta alle nuove disposizioni: «Si deve attendere… secondo lui dice che noi abbiamo parlato e tutto… se mi avessero trovato qualche video o qualcosa… però non c’era nessun video né nulla», mostrandosi sollevato per il fatto che gli investigatori non avessero trovato nulla. È lo stesso Delgado, all’atto di raccogliere i documenti, ad evidenziare come avrebbe dovuto portare con sé la tuta nera (ossia la muta da sub) perché altrimenti non avrebbe potuto continuare a lavorare. I tre lasciano, dunque, l’appartamento di via Stesicoro per raggiungere un nuovo luogo, questa volta in via Filicuso. Luogo dal quale si allontaneranno poi definitivamente.

La preoccupazione del proprietario

Da rimarcare come Teresa Salerni, madre di Simone Ficarra, una volta rimasta sola con il figlio Antonio, persona nella cui disponibilità ricade l’immobile di via Stesicoro, abbia dovuto raccogliere le lamentele del giovane per la presenza di stranieri in casa sua, senza che ne sapesse nulla: «Mi hanno portato gli stranieri dentro casa, se non esco pazzo ora non esco pazzo più», manifestando anche forte preoccupazione per le attività investigative in corso: «Ma ancora sei convinta che ormai è andata, ma tu sei convinta… sono tutti sotto controllo, telecamere dovunque siamo bruciati ormai». La preoccupazione di Antonio Ficarra andava molto oltre la sola irruzione nell’appartamento, ritenuta la mera punta dell’iceberg investigativo. Ed infatti, rispondendo alla madre circa i luoghi presumibilmente controllati, l’uomo afferma: «Del suocero di Rocco, appena fanno una retata, mettono in mezzo noi», esprimendo totale disapprovazione per “quella cosa”, ossia la cocaina: «Mi ha sempre fatto schifo quella cosa».

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