martedì,Aprile 16 2024

L’offesa su Facebook non è reato se l’insultato è online

La Cassazione ha stabilito che non tutte le ipotesi di offese perpetrate via social network sono sanzionabili penalmente

L’offesa su Facebook non è reato se l’insultato è online

Il compimento di atti illeciti attraverso i social network è un tema molto attuale. Molti credono che tramite un account falso si possano perpetrare insulti a chiunque senza essere scoperti. Inoltre, c’è la convinzione che i social network sono uno spazio senza legge, dove le condotte illecite finiscono per sfumare senza conseguenze. Invece, come spiega l’avvocato Marco Martorana su Altalex, l’adattamento del panorama giuridico alle nuove tecnologie c’è stato, sotto due aspetti: uno legislativo, e uno giurisprudenziale.

Da un lato, sono state introdotte integrazioni alle norme penali, e dall’altro la giurisprudenza – specialmente quella di legittimità – ha mostrato una certa severa attenzione per questo tipo di fenomeni, evidenziando come le offese sui social possano integrare una molteplicità di reati. Tuttavia, ci sono dei fattori che possono condurre all’esclusone della rilevanza penale del fatto, come affermato proprio da una recente pronuncia della Corte di Cassazione.

Offese sui social: le principali ipotesi di reato

Perpetrare offese sui social network può esporre l’autore a diverse ipotesi di reato, le quali si differenziano a seconda del bene giuridico tutelato dalla norma incriminatrice o dalla condotta posta in essere dall’autore. Generalmente, tenendo conto dell’uso comune di un social network da parte di un soggetto privo di specifiche competenze tecniche e che non sia mosso da intenzioni criminose estremamente complesse, le ipotesi di reato più comuni tra quelle configurate dalla perpetrazione di insulti sui social sono la diffamazione (art. 595 c.p.) e la minaccia (art. 612 c.p.).

Per quanto riguarda la prima fattispecie – la più diffusa – l’art. 595 c.p. mira a sanzionare chiunque “comunicando con più persone, offende l’altrui reputazione”. In questo caso, il bene giuridico tutelato consiste nella reputazione, nel decoro e nell’onore del soggetto sia nella sua dimensione interna data da ciò che la persona pensa di sé stessa, sia in quella esterna legata ai suoi rapporti sociali. Alla condotta base di cui al comma 1, la norma aggiunge delle circostanze ulteriori che determinano un aumento della sanzione comminata.

Nello specifico, il comma 2 individua l’ipotesi di attribuzione di un fatto determinato, il comma 3 l’offesa diffusa “col mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità”, e il comma 4 quella “recata a un Corpo politico, amministrativo o giudiziario, o ad una sua rappresentanza o ad una autorità costituita in collegio”. Ebbene, il caso specifico degli insulti perpetrati mediante i propri account social rientra nell’ipotesi di cui all’art. 595, comma 3, c.p. – c.d diffamazione aggravata – in quanto riconducibile all’utilizzo di mezzi di pubblicità diversi dalla stampa, la cui gravità è rappresentata soprattutto dalla platea sconfinata di possibili destinatari (Cass. Pen., Sez. V, sent. n. 13979/2021).

Peraltro, il caso della diffamazione aggravata di cui al comma 3, può benissimo combinarsi con quella individuata dal comma 2, laddove un soggetto pubblichi sui social delle offese espressione dell’attribuzione di un fatto determinato. È il caso, ad esempio, del soggetto che scrive sulla propria bacheca – o su altre – che una persona determinata sta intrattenendo una relazione extra-coniugale, andando quindi a minarne la reputazione oltre ad esporlo a problematiche familiari (Cass. Pen., Sez. VI, sent. n. 13564/2020).

Diversa ipotesi riconducibile all’uso dei social è quella della minaccia ex art. 612 c.p., norma che sanziona chiunque minaccia ad altri un danno ingiusto. In questo caso, “è sufficiente che il male prospettato sia idoneo, in considerazione delle concrete circostanze di tempo e di luogo, ad ingenerare timore in chi risulti esserne il destinatario, male che non può essere costituito dalla prospettazione di una legittima azione giudiziaria civile e dalla diffusione di notizie relative all’inadempimento negoziale commesso nei confronti dell’agente” (Cass. Pen., Sez. V, sent. n. 17159/2019).

Pertanto, nella fattispecie in esame ciò che rileva non è l’insulto lesivo della reputazione – che può comunque aggiungersi alla condotta sanzionata dall’art. 612 c.p. – bensì la minaccia di un male ingiusto connessa all’idoneità della stessa a generare un timore considerevole nel destinatario. Basta cioè che il male prospettato sia idoneo a incutere paura alla vittima (Cass. Pen., Sez. V, sent. n. 35817/2018). Tuttavia, occorre escludere, come precisato dalla stessa Suprema Corte, le ipotesi in cui venga minacciato il ricorso alla giustizia, in quanto in linea generale legittimo. In altri termini, minacciare di querelare il proprio interlocutore non costituisce reato.

L’ingiuria

Quando si parla di ingiuria, la premessa da fare è che oggi non si tratta più di una fattispecie di reato. L’art. 594 c.p., che originariamente la prevedeva e disciplinava, è stato infatti abrogato dal D.Lgs. 15 gennaio 2016, n. 7, cosicché il vecchio reato di ingiuria è stato depenalizzato. Pertanto, come previsto nello stesso anno dalla Corte di Cassazione, il provvedimento di depenalizzazione del reato di ingiuria ha determinato l’abolitio criminis con sostituzione di sanzione pecuniaria civile (Cass. Pen., Sez. V, sent. n. 19516/2016).

Andando però a leggere il testo della norma previgente, si nota come la condotta decritta fosse molto simile a quella di cui all’art. 595 c.p. sul reato di diffamazione. L’art. 594 c.p., infatti, sanzionava l’offesa alla reputazione di una persona presente. Inoltre, prevedeva la stessa pena laddove la condotta fosse stata compiuta mediante comunicazione telegrafica o telefonica, o con scritti o disegni, diretti alla persona offesa, e aggravanti nel caso di offesa consistente nell’attribuzione di un fatto determinato e di commissione del reato in presenza di più persone. Come nel caso della diffamazione, il bene giuridico era anche in questo caso la reputazione, l’onore e il decoro del soggetto.

Senonché, l’elemento che distingueva il reato di ingiuria da quello di diffamazione risiedeva nel requisito della presenza della persona offesa, da non intendersi come sola contiguità spazio-temporale, poiché come abbiamo visto la fattispecie prevedeva anche la consumazione dell’illecito mediante comunicazione telegrafica o telefonica, le quali implicano necessariamente la distanza fisica. Ebbene, tale carattere di differenziazione tra le condotte descritte dal vecchio art. 594 c.p. e dall’art. 595 c.p. determina il principale punto di riferimento per la distinzione tra le due fattispecie e – in virtù dell’abrogazione della prima norma – per la determinazione della rilevanza penale o meno dell’offesa.

L’irrilevanza penale dell’offesa sui social

Quanto affermato nel precedente esame del depenalizzato reato di ingiuria trova la sua applicazione concreta nella sentenza 26 ottobre – 2 dicembre 2021, n. 44662 (testo in calce) pronunciata dalla Quinta Sezione Penale della Corte di Cassazione. Nel caso di specie, la Corte d’appello di Catanzaro aveva confermato la condanna per diffamazione ai danni di un soggetto per aver pubblicato commenti e insulti su una chat con la persona offesa. A seguito del ricorso dell’imputato, però, la Corte di Cassazione ha accolto il secondo motivo sollevato, avente ad oggetto l’opposizione alla qualificazione della condotta come diffamazione e non come ingiuria.

I giudici di legittimità hanno fondato la decisione sul requisito della presenza della vittima, riaffermandolo come elemento essenziale di distinzione tra ingiuria e diffamazione anche a seguito della depenalizzazione della prima. Inoltre, dovendo tenere conto dell’evoluzione tecnologica e dei diversi strumenti attualmente in uso, la presenza della persona offesa può essere anche “virtuale” e non necessariamente fisica o telefonica. Pertanto, secondo la Corte, occorre fare una valutazione caso per caso volta a identificare la circostanza precisa in cui l’offesa viene perpetrata.

Nel caso di specie, il destinatario degli insulti in chat era online e quindi riceveva i messaggi in tempo reale; questo porta a concludere che la vittima fosse – seppur virtualmente – presente, determinando quindi l’integrazione dell’ingiuria, l’esclusione del reato di diffamazione e della rilevanza penale della condotta. D’altronde – chiarisce la Cassazione – l’esito dell’argomentazione sarebbe stato il medesimo anche laddove gli insulti fossero stati proferiti durante una riunione da remoto tra più individui compreso l’offeso: in questo frangente si sarebbe infatti trattato di ingiuria commessa alla presenza di più persone – anch’essa depenalizzata – come già deciso dalla Sezione V Penale della Corte nella precedente sentenza n. 10905/2020.

top