Castrizio: «Alla ricerca del porto antico della Reggio greca»
Secondo lo storico, l’attività di archeologia subacquea attualmente di fronte al lungomare Falcomatà, potrebbe portare altre importanti rivelazioni
Nuovi importanti rivelazioni su quella che fu la città di Reggio greca potrebbero presto arrivare. Negli anni della costruzione dell’intubata, come confessò un soprintendente ai beni archeologici, quello che veniva trovato tra i resti veniva gettato a mare.
Sotto l’egida della “Metaconferenza”
Questa volta con i reperti trovati in mare, nei pressi della statua di Atena, si fa sul serio. Sono persino arrivati centomila euro dal ministero per i beni e le attività culturali e per il turismo. Quale migliore occasione allora per spingersi oltre e cercare quello che fu il vero porto di Reggio? A fare questa proposta è Daniele Castrizio, storico e docente di numismatica all’Università di Messina, forte del lavoro portato avanti nell’ambito della public history con la sua “Metaconferenza sui Bronzi di Riace”, insieme al menestrello Fulvio Cama e al grafico Saverio Autellitano.
Un relitto carico di…
«Dal mio punto di vista il problema non è il relitto in sé – spiega il professore, riferendosi a ciò che giace a pochi metri dalla spiaggia sul lungomare – anche perché sul posto c’è un archeologa subacquea della soprintendenza, gestione amministrativa senza lassismo. Nella nostra città, per come stanno le cose, avremmo bisogno di un archeologo di quartiere». Quanto all’identikit del relitto, non molto in fondo al mare: «si potrebbe trattare di una nave da carico del IV secolo a. C., affondata lì. Dalle prime indiscrezioni sembrerebbe un carico vinario di Reggio in partenza oppure vino importato da Rodi».
Castrizio: «Ora cerchiamo il porto»
«Il mio oggetto del contendere- prosegue Castrizio – che mi rende inquieto è che noi abbiamo questa nave e finalmente stiamo facendo delle prospezioni lì davanti al “cippo”, ma queste prospezioni perché non possono essere fatte per capire se c’è o meno il porto di Reggio? Sappiamo che c’era il famoso porto di Reggio, nel quale il cosiddetto “cippo” rappresentava l’ultima parte, il molo più a Nord. E quindi questo porto come facevano a proteggerlo? Aveva ragione la vecchia soprintendenza che credeva che il Calopinace finisse con un cono di deiezione oppure, come creva Hans Peter Brueghel “il vecchio” c’era una piccola falce che era punta Calamizzi e che chiudeva il porto?». Castrizio non usa mezzi termini, com’è suo costume: «Io al cono di deiezione non ho mai creduto, credo invece all’ipotesi della falce che inizialmente doveva essere una specie di promontorio. Poi con Caligola, quando furono fatti quelli che Giuseppe Flavio chiama “lavori del grandissimo porto di Reggio”, è venuta fuori una diga foranea cioè si è potuto rendere il porto di Reggio ultra sicuro, e non certo per amore di Reggio, ma per amore di Roma. Perchè nel nostro porto di Reggio arrivavano le navi egiziane che con i prodotti che dovevano essere portati a Roma per dare da mangiare alla plebe».
Calamizzi, alla scoperta del quartiere sommerso
Conclude il professore: «Abbiamo una grande l’occasione: Reggio aveva 80 triremi che sappiamo che stavano a punta Calamizzi, ottanta triremi sono 80 ricoveri in pietra, noi sappiamo più o meno dove stanno: abbiamo punta Calamizzi. Lì sotto non c’è solo una chiesa come mi raccontava mio nonno quando ero bambino: ma non c’è solo un quartiere sommerso, ma il porto di Reggio e il tempio di Artemis».