venerdì,Aprile 19 2024

COVID 19. LETTERE A MIA MADRE – 2. Per non dimenticare

Sensazioni, paure e speranze ai tempi del Coronavirus, nelle lettere che Valeria indirizza a sua madre. Il racconto di una quotidianità radicalmente cambiata dalla pandemia

COVID 19. LETTERE A MIA MADRE – 2. Per non dimenticare

Di Valeria Guarniera – Scriveva Manzoni ne “I promessi sposi: “In principio dunque, non peste, assolutamente no, per nessun conto: proibito anche di proferire il vocabolo. Poi, febbri pestilenziali: l’idea s’ammette per isbieco in un aggettivo. Poi, non vera peste, vale a dire peste sì, ma in un certo senso; non peste proprio, ma una cosa alla quale non si sa trovare un altro nome. Finalmente, peste senza dubbio, e senza contrasto: ma già ci s’è attaccata un’altra idea, l’idea del venefizio e del malefizio, la quale altera e confonde l’idea espressa dalla parola che non si può più mandare indietro”.

Mi è capitato, facendo delle ricerche e parlando con una cara amica, di ritrovare questa frase. E mi ha fatto pensare che l’uomo, in fondo, non cambia mai.

All’inizio anche noi abbiamo schivato, ignorato, sottovalutato. Chiuso qualche porta, lasciandone aperte altre mille. Il Coronavirus sembrava un male lontano, che qui non sarebbe mai arrivato. Non a quel modo almeno. E’ successo tutto tra dicembre 2019 e gennaio 2020, mà. E’ successo che a Whuan, una parte della Cina che in molti non avevamo mai sentito neanche nominare, le autorità hanno cominciato a registrare un numero importante di polmoniti anomale. Te la faccio breve: era un nuovo virus che aveva iniziato a circolare. Così tra un tg e l’altro abbiamo iniziato a familiarizzare con parole nuove: coronavirus e Covid 19 sono entrate prepotentemente nei nostri discorsi. Ne parlavamo, sì. Ma non ci riguardava.

Guardavamo dall’alto al basso quel male “lontano e sconosciuto”, come un problema circoscritto ad una determinata parte del mondo, per di più lontana, molto lontana da noi.

Poi è arrivato, ma la presunzione di essere più forti ha prevalso, come al solito. Nel giro di un mese l’Italia è stata letteralmente sconvolta, fase dopo fase, dalla consapevolezza che sì, ci riguardava, ma in fondo eravamo tranquilli: lo potevamo gestire. Una rappresentazione dell’assurdo in cui le prime zone rosse “vietato entrare ed uscire” coesistevano con spot del tipo #MilanoNonSiFerma e “aperiVirus” in piazza per scongiurare  il pericolo. Ma il pericolo era stare vicini. E noi eravamo ciechi. E mentre qualcuno iniziava a prendere consapevolezza, illustri professionisti continuavano a dire che no, non c’era niente da preoccuparsi.

Di lì a poco abbiamo iniziato a sentir parlare “distanziamento sociale”, poi #restateacasa e gli spot del Governo per dirci di lavarci le mani bene e frequentemente. Per invitarci ad uscire solo se strettamente necessario. Prima qualche piccolo comune. Poi un’intera regione. Poi l’Italia tutta: zona rossa, e la nostra vita uno slalom tra divieti e voglia di (soprav)vivere.

L’epidemia è diventata pandemia. Tutti, o quasi, hanno iniziato ad aprire gli occhi. La storia, con avvenimenti mai visti, ha bussato alla nostra porta.

Eravamo pronti? no, mà. Ma andavamo avanti, più o meno fiduciosi, bisognosi di qualcuno a cui affidarci. E ci affidavamo alle Istituzioni. O almeno, era lì che cercavamo risposte.

Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, abbreviato DPCM, un altro termine con cui abbiamo in fretta familiarizzato. Uno dopo l’altro, a regolamentare le nostre azioni. Il bollettino della Protezione Civile, appuntamento quotidiano ormai imperdibile. Le autocertificazione, a validare i nostri spostamenti.

Il nostro abbigliamento cambiava, si adattava all’umore: vestiti comodi ad aspettare chissà quale miracolo. E nuovi accessori ad accompagnare le fugaci uscite “solo per motivi di assoluta necessità”: guanti e mascherine, a proteggerci dagli altri.

“Se torturi i numeri abbastanza a lungo, ti confesseranno qualsiasi cosa”.

E i numeri spesso sono stati spaventosi: in Italia, dall’inizio dell’epidemia, più di duecento mila persone hanno contratto il virus Sars-CoV-2 e quasi trenta mila sono decedute. Mentre ti scrivo, i casi confermati nel mondo sono più di tre milioni. Le vittime superano di parecchio le duecento mila. Non c’è bisogno di torturarli questi numeri, mà, per capire che l’abbiamo scampata grossa. Che tanti ritardi o colpevoli sottovalutazioni hanno alimentato questa ondata di morte e dolore. Che per la prima volta, per salvarci, dobbiamo stare lontani. A casa. Aggrappati ai ricordi, alla speranza, alla voglia di normalità.

Ora siamo nella Fase 2, alle prese con una lenta ripartenza, ma io mi sento ancora in piena emergenza: il senso di inquietudine permane, e quel velo di tristezza copre il tempo che passa… e passa senza lasciare nulla.

Come tutti, ultimamente penso tanto.  …penso al nostro amato mare, che culla i miei ricordi e nutre il desiderio sfrenato di tornare presto. Penso ai nostri cari, a quell’amore tanto grande da non poter essere contenuto in poche semplici parole. Penso a loro, quei nipoti che non hai potuto conoscere e che hanno riempito le nostre vite di gioia e risate. Penso al sacrificio che tutti (o quasi) facciamo, perchè è l’unico modo. Perché é giusto così: alleniamo la pazienza, lasciamo spazio alla paura, coltiviamo la speranza. E insieme ne usciremo. O forse no… perchè poi penso agli imbecilli che non hanno capito nulla. Ai runner improvvisati. Agli “smemorati” che, guarda caso, devono tornare ogni mezz’ora al supermercato.

Penso alle feste che qualcuno ha improvvisato, in giro, per strada, brindando ad un nuovo inizio. Strade piene, come se nulla fosse successo. Nessun rispetto per il distanziamento. Nessun rispetto per i morti. Nessun rispetto per se stessi.

“La maledizione degli uomini è che essi dimenticano, l’ho letto da qualche parte. Spero non succeda, mà… perchè mai come ora questa maledizione potrebbe costarci cara.

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