venerdì,Marzo 29 2024

Zaha Hadid salverà forse la periferia di Reggio Calabria?

La riflessione di Francesco Tripodi: «A Reggio tutto nasce dal cemento. Non esiste ricchezza che non veda il passaggio nelle costruzioni. Io so com'è stata costruita la periferia»

Zaha Hadid salverà forse la periferia di Reggio Calabria?

di Francesco Tripodi – Ho i piedi immersi nella battigia di questo mare che, per me, non è più mare. Guardo il paesaggio e l’orizzonte che incantano con la bellezza pietrificante del mito.

Cerco di calmare quest’ansia che mi prende ogni volta che cammino, ogni volta che salgo scale, prendo ascensori, quando struscio le suole su zerbini e supero soglie. Non posso fermare un rimuginio d’anima perenne su come sono stati costruiti i nostri, palazzi, le nostre case.

Tutto a Reggio nasce dal cemento. Non esiste ricchezza economica prodotta in questa città che non veda il passaggio nelle costruzioni: gare d’appalto, appalti, cave, cemento, inerti, malta, mattoni, impalcature, operai, documentazioni burocratiche, di attese interminabili, di autorizzazioni sedimentate come lente gocce di stalattiti.

Io so e ho le prove. So come è stata costruita la periferia di questa città. Conosco le mani, le dita, i progetti. E la sabbia. La sabbia che ha tirato su palazzi e case cubiche. Quartieri, parchi, ville.
Io c’ero quando arrivò la costruzione di Arghillà, sulla spiaggia, tra i ciottoli, iniziarono ad apparire frammenti di argilla rossa con smalti colorati, nessuno ci fece caso, raccogliendoli, giocando a farli rimbalzare sull’acqua.

Ero lì mentre le case cubiche crescevano come funghi avvelenati, gli scarichi a mare segnavano irreversibilmente le spiagge bianche, i camping paradisiaci chiudevano i battenti a chi veniva da lontano per immergersi nelle acque cristalline che sapevano sempre di più dell’essenza meno vicina all’Eden.

Sulle spiagge di Catona e Gallico, arrivarono i camion, motocarri e ruspe che inabissarono montagne di metri cubi di materiali di risulta, cemento, inerti, malta, mattoni, impalcature provenienti dalle periferie coperte dalla colata di cemento che assicurò, il dominio dei padroni delle ruspe e ricchezza infinita ai padroni dei giardini che coltivavano metri cubici con doppi servizi, casa, lavoro, e un futuro a chi era stato da sempre impegnato ad annaspare nel presente di una città dolente, lontana, altèra come una vecchia regina in decadenza.

A tutti noi sembrò di aver guadagnato qualcosa, forse la sazia, moderna cecità, di chi viaggia veloce verso la falsa, agognata comodità televisiva.

Alle fiumare non toccò un destino differente. Furono svuotate dei loro alvei secolari che avevano garantito spiagge ampie e bianche in tempi in cui i turisti erano pochi e i massari pascolavano le capre.
Divennero discariche di tutte le vergogne umane che, durante l’inverno, seguendo la forza dell’acqua, venivano cedute al mare dello Stretto.

Io ero lì, quando venne il tempo delle aziende senza depuratori, che scaricavano i loro liquami direttamente nelle fogne che, confluendo nelle vasche di un depuratore che non ha mai depurato, si combinavano in sostanze tossiche volatili appestando l’aria e la vita.

Ci furono le promesse di sviluppo portate dal Piano Urban e dalla striscia di asfalto con illuminazione, panchine nuove, marciapiedi con mattoni gialli e piantine di oleandro.

I mattoni gialli sparirono nei bagagliai aperti delle auto di chi aveva bisogno di costruire l’indegnità tipica di chi sogghigna in disprezzo del bene comune.

Con la stessa velocità sparirono le Tre Fontane sacrificate all’asfalto ed alla comodità di viaggiare veloci su una strada senza uscita.
Il lungomare e le spiagge di Gallico, allo stesso modo, vennero sacrificate sull’altare del turismo a parole.

Spiagge non spiagge concesse alla balneazione per volere, nostalgia, anacronismo proprio di quegli esseri umani che continuano a guardare il tramonto del sole dietro l’Etna, volgendo le spalle alla loro terra, ciechi nel loro presente.

Ho i piedi immersi nella battigia di questo mare che, per me, non è più mare. Guardo il paesaggio e l’orizzonte che incantano con la bellezza pietrificante del mito.

Cerco di lenire il dolore che mi prende ogni volta che penso a mia nonna, mia madre, amiche e vicine di casa. Tutte donne. Tutte accomunate dalla stessa storia dopo la malattia. Viaggi della speranza, risparmi di una vita dilapidati nell’inutile ricerca della salvezza e famiglie distrutte dal dolore. Ma dopo i funerali tornava il silenzio come se fosse tutto normale. Come se quelle morti fossero il frutto di colpe e responsabilità da tenere nascoste ognun per sé, dentro le mura delle nostre case.

Io so e ho le prove. So quello che la trasparenza dell’acqua nasconde a chi, nonostante tutto, si condanna alla colpevole spensieratezza della replica di una estate eternamente uguale.
A chi, sotto il sole dello Stretto, vuole dimenticare le responsabilità di un presente che è ancora il nostro passato, la terra bruciata dalle nostre vergogne, i morti, quelli nuovi e quelli vecchi.

Quello che non si vuol vedere non esiste e per tanto, troppo tempo, abbiamo cercato un nemico straniero, lontano da noi, alimentando la leggenda dello “scippo”, senza voler fare i conti con quello che siamo stati, senza voler guardare quello che siamo oggi.

Nessun piano strutturale per l’emancipazione, per un futuro diverso di tutta la comunità che aspetta oltre le mura della città. Nuove colonne fanno pendant con le statue di Rabarama in continuità con gli stop and go di uno sviluppo circostanziale, preelettorale, con poche idee, navigando alla deriva nel mare dell’indifferenziata, assimilata dall’antropologia dolente della nostra città.

Con le opere d’arte esibite, stratificate sul Belvedere affacciato sul mare dello Stretto, per far fronte, per barricare quello che rimane dal default, dal dissesto monadico della nostra comunità.

Opere d’arte come moneta di scambio, come baluardo del nostro neoconservatorismo postmoderno, populisti sotto assedio, chiusi tra le quattro mura della nostra città.

Una costellazione di musei, parchi, istituzioni, biblioteche che, gravitano con orbite indifferenti, non dialogano, col respiro corto, che guardano alla circostanza e non al contesto.

Ricordo che qualche anno fa Philippe Daverio, davanti alle telecamere della televisione nazionale, pronunciò queste frasi:
“Reggio Calabria, un posto terribile, come Messina che è un altro posto terribile”, “è già un miracolo che la gente ci vada a vedere i Bronzi. Il problema non sono i Bronzi o il Museo, il problema è la città che è una catastrofe. È grottesco pensare che quei Bronzi lì possano essere richiamo turistico”.

Come spesso accade, tutti si indignarono, ci fu anche chi chiese ai parlamentari calabresi un intervento per ottenere le scuse. Non ci furono le scuse. Non ci fu neanche l’intervento dei parlamentari calabresi.

Intanto, fuori le mura della città, GAGA cresce, issando colonne nuove, nel consenso e nel silenzio, divorando i resti della fiumara sacra, per garantire a colpi di ruspa gli interessi di pochi, il falso sviluppo infrastrutturale, la comoda scampagnata alla gente che arriverà, per prendere il fresco, scampagnando, forse, dalla città.

Io so e ho le prove. So come è sparita la Riviera della Zagara. Conosco le mani, le dita, i progetti. E la sabbia. La sabbia che ha tirato su palazzi e case cubiche. Quartieri, parchi, ville.

Io so e ho le prove. So che non si tratta della spazzatura, di Waterfront, né di un museo di lusso per conservare le reliquie di un mare che, per la città di Reggio e la sua gente, non è mai stato Mare.

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