Con “Non siamo qui” di Tino Caspanello cala il sipario al Teatro Primo su una stagione che interroga il nostro tempo
Un testo poetico e necessario chiude l’undicesima edizione della rassegna di Villa San Giovanni: due esseri umani in fuga dalla realtà per riscoprire la possibilità di un altrove

Con lo spettacolo Non siamo qui di Tino Caspanello, è calato il sipario sull’undicesima stagione del Teatro Primo di Villa San Giovanni, uno spazio che da anni lavora sulla drammaturgia contemporanea con rigore, profondità e continuità. Il titolo, semplice e spiazzante, non è solo una dichiarazione: è una domanda che interroga chi guarda, chi ascolta, chi ancora prova a cercare un altrove possibile dentro e fuori la scena.
Lo spettacolo è andato in scena sabato 12 e domenica 13 aprile al Teatro Primo, davanti a un pubblico attento e coinvolto. La produzione è firmata da Teatro Pubblico Incanto, in collaborazione con Statale 114 – Distribuzione Latitudini, due realtà consolidate nel panorama del teatro indipendente. In scena, accanto a Cinzia Muscolino, lo stesso Tino Calabrò, che affianca l’attrice nella restituzione scenica di un testo scritto e diretto con precisione e misura.
Non siamo qui è il racconto di una fuga. Merilìn e il signor Pippo non scappano da qualcuno, ma da qualcosa: una società che ha perso autenticità, che ha trasformato il linguaggio in vuoto, le emozioni in superficie, la quotidianità in trappola. I due personaggi si muovono attraverso un tempo e uno spazio indefiniti, abitando un “non luogo” fatto di pensieri frammentati, di gesti minimi, di tentativi di contatto. Il mondo, diventato luogo comune per eccellenza, non è più abitabile. E allora bisogna cercare altro.
Tra reale e surreale, ciò che resta è fango e terra sotto i piedi, in cui piantare le radici di un fiore nuovo. Una scena dopo l’altra, si costruisce una possibilità di rinascita che parte dalla consapevolezza dello smarrimento. Come a dire che prima ancora di sapere dove andare, bisogna sapere da cosa fuggire. Il senso del viaggio, in fondo, è tutto lì. E si affaccia una verità tagliente: «Il genere umano non può sopportare troppa realtà».
«Dove siamo, se non siamo qui?». È da questa domanda che parte il testo. Tino Caspanello non offre risposte, ma costruisce un terreno di resistenza: «Lo spettacolo nasce da una riflessione sul contemporaneo, sul mondo in cui stiamo tentando di sopravvivere. È il racconto di una fuga da un luogo comune che è diventato il mondo stesso, a livello linguistico ed esistenziale».
La realtà, per Caspanello, è diventata una gabbia condivisa. Una gabbia in cui tutti vedono, ascoltano, dicono le stesse cose. «È il rischio peggiore per il genere umano: svegliarsi e pensare tutti la stessa cosa. Come se fuori non esistesse più. Bisogna lasciare liberi il corpo e l’anima di ritrovare un fuori nel quale vivere».
La sua fuga, però, non è semplicemente un rifiuto. È un atto di sottrazione e di ricerca, una spinta a ricomporre i cocci che restano tra le mani. E chiama in causa le arti: «Oggi tocca al teatro, e alle arti in generale, prendersi un ruolo chiaro: diventare punto di passaggio verso una metafisica che abbiamo smesso di percepire. Abbiamo perso i filtri critici, non sappiamo più leggere il reale».
Nel cuore della sua scrittura c’è l’urgenza di andare oltre il qui e ora: un tempo diverso, una proiezione nel futuro, che non sia preconfezionata, che non sia replica. Per questo, racconta, tornare al Teatro Primo ha un valore particolare: «È un rapporto che dura da anni. Un legame vero, con Silvana, con Christian, con il pubblico. Ritrovarli ogni volta è come sentirsi a casa».
Anche Cinzia Muscolino e Tino Calabrò, protagonisti sulla scena, partono dalla stessa domanda: se non siamo qui, dove siamo?. E la risposta arriva dal palco: «Siamo in un non-luogo, un luogo metafisico in cui due persone cercano di fuggire da una realtà che non gli somiglia, che non li rappresenta». Un viaggio metaforico, un cammino che si compie insieme – anche nel gioco reciproco tra gli attori. «Chi è più bravo a fuggire? Lei. Le donne sono sempre più brave in questo», sorride Calabrò. «Non è vero!», ribatte Muscolino. Ma la battuta lascia spazio a una riflessione più seria: «Il punto di fuga va cercato ogni giorno. L’oltre è sempre la via giusta. Non si può restare incollati alla realtà, bisogna continuare a sognare».
E il teatro, per loro, è proprio questo: il luogo dove il sogno accade dal vivo. «Non è uno schermo, non è una registrazione. È un momento reale, condiviso. Ci sono corpi vivi che respirano, sudano, vivono insieme al pubblico. È questo che fa la differenza». Entrambi rivolgono un pensiero a Silvana Luppino e Christian Parisi, direttori del Teatro Primo: «Sono straordinari. Gestiscono questo spazio con una passione rara, proponendo sempre progetti interessanti. Applausi per loro».
Chiudere una stagione con Non siamo qui non è un caso. È una scelta chiara, quasi una dichiarazione politica. In un mondo che invita a semplificare, omologare, replicare, il Teatro Primo decide di concludere il suo percorso annuale con un testo che invita a spostarsi, cercare, dubitare. È una forma di resistenza, ma anche di speranza: raccontare la fuga non per disertare, ma per trovare nuovi modi di abitare il presente. E se il palco resta uno degli ultimi luoghi dove si può ancora respirare aria buona, allora vale la pena continuare a frequentarlo.