Il peso dell’oblio e la leggerezza del pop: Domenico Loddo e il teatro che racconta gli invisibili
Dalla risata al colpo nello stomaco, la drammaturgia di Loddo attraversa la storia dimenticata dello Stretto per restituirla al presente con parole che disturbano, accolgono e resistono

C’è un teatro che non si mette in cattedra, non spiega, non alza la voce. Un teatro che preferisce il sorriso al proclama, il dubbio alla verità assoluta. Domenico Loddo scrive così: con la leggerezza di chi sa di dover scendere in profondità. Le sue storie partono dal basso, da un’ironia sottile che si insinua nel quotidiano, e finiscono per parlare degli abissi. Degli invisibili, dei dimenticati, dei sommersi.
Chi assiste ai suoi spettacoli ride. Poi, all’improvviso, si ferma. La risata si spezza, il pubblico resta in apnea. È un meccanismo preciso, calibrato, che non lascia indifferenti. Perché Loddo costruisce le sue drammaturgie come un affondo dolce: si entra per caso, si esce con un colpo allo stomaco.
Il suo teatro nasce ai margini, e dai margini guarda il mondo. Scrittore, disegnatore, narratore a tutto campo, Loddo viene da Lazzaro, sulla costa dello Stretto. Da lì, da quella terra dove la storia è passata lasciando più ferite che eredità, parte per raccontare qualcosa che ci riguarda tutti. Non vuole salvare nessuno, ma prova a salvare il senso del raccontare stesso. E per farlo si serve della risata, del ritmo, del pop. Ma sempre con addosso il peso dell’oblio.
Il comico come chiave, il tragico come verità
«Il problema di fondo di tanto teatro è che ci si prende troppo sul serio». Non è una battuta, è una dichiarazione poetica. Per raccontare davvero ciò che ci circonda, per arrivare a toccare le ferite, bisogna prima disarmare lo spettatore. Farlo ridere. Farlo sentire dentro qualcosa. E solo dopo colpirlo. Il comico, nel suo teatro, non è un trucco, ma una soglia. È il ponte che permette di attraversare territori drammatici senza alzare muri difensivi. La risata iniziale crea uno spazio condiviso, popolare, apparentemente leggero. Ma è solo il preludio: da quella porta si entra in una zona profonda, tragica, vera.
Questo percorso, dal sorriso all’abisso, non è improvvisato. È costruito con precisione narrativa, con un’idea chiara di ciò che il teatro deve fare: non spiegare, ma scuotere. Non dare risposte, ma porre domande. E per farlo, serve un linguaggio che sia accessibile, contaminato, pop, senza per questo rinunciare alla densità del pensiero. Il pubblico lo capisce, lo sente. E reagisce. Reagisce con un silenzio improvviso, con uno sguardo che si abbassa, con quell’annaspare emotivo che arriva quando una carezza si trasforma in schiaffo. È lì che il teatro di Loddo si compie. Quando la forma si frantuma e resta solo il contenuto: nudo, tagliente, necessario.
Raccontare ciò che è stato cancellato
C’è una parola che ritorna, nei testi e nelle parole di Domenico Loddo: «dimenticanza». Non è solo un tema, è una condizione. Una ferita collettiva che si porta dentro chi scrive dalla periferia della storia. È da lì che parte il suo teatro, da ciò che è stato lasciato indietro, rimosso, ignorato, sepolto. E il compito che si dà è chiaro: raccontare i sommersi, prima che lo siano per sempre.
Nella sua opera di narrativa più nota, “Frammenti Tellurici“, questo intento diventa esplicito. Il terremoto del 1908 che devastò Reggio e Messina diventa metafora e cronaca insieme, un racconto che riporta alla luce non solo una tragedia naturale, ma una rimozione culturale. Quasi 100.000 morti. Un evento che ha cambiato per sempre l’assetto dello Stretto, e che pure non ha lasciato nomi, volti, storie nella memoria collettiva. Quelle persone, Loddo lo dice con lucidità, «sono morte nel sonno, e non sappiamo nemmeno che faccia avessero».
E allora scrivere diventa un atto di resistenza. Portare in scena la dimenticanza significa restaurare la memoria, ma non con la retorica delle commemorazioni. Piuttosto, con un linguaggio capace di trasformare la cronaca in narrazione, l’evento in racconto, la storia in carne viva. È così anche in Aramen e Stannum, dove l’emersione dei Bronzi di Riace si intreccia con le rotte migratorie di oggi. I corpi di ieri, salvati dal mare. Quelli di oggi, spesso inghiottiti e dimenticati. La tragedia si ripete, ciclica, inesorabile. E il teatro di Loddo prova a spezzare questo ciclo. Non con la denuncia, ma con il racconto.
In fondo, tutto il suo teatro è un esercizio di memoria contro l’oblio. Un invito a fermarsi, a ricordare, a dare un nome alle storie che la storia ha smesso di raccontare.
Una drammaturgia contaminata: scrittura, fumetto, racconto
Domenico Loddo non scrive solo per il teatro. Disegna, racconta, compone, mescola linguaggi. La sua drammaturgia nasce da una contaminazione continua, dove il fumetto incontra la scena, la narrativa lambisce il monologo e il pop si insinua nella profondità dei temi trattati.
«Io vengo dal mondo fumettistico», dice. E questo si vede. Nella costruzione ritmica dei suoi testi, nell’uso del dialogo come strumento di tensione narrativa, nella capacità di visualizzare emozioni e concetti attraverso immagini semplici, ma potenti. Il suo è un teatro che guarda alle arti visive, che ragiona per sequenze, per inquadrature, per montaggi emotivi. E che, soprattutto, non si accontenta di un solo mezzo espressivo per dire ciò che ha da dire.
Ha scritto racconti, romanzi brevi, canzoni. Ma anche spettacoli come Dora in Avanti o Il Signor Dopodomani, che sembrano usciti da un universo parallelo dove la patafisica si fonde con l’urgenza politica, e il surreale diventa lo specchio più fedele della realtà. I suoi personaggi ridono, delirano, pensano a voce alta, inciampano nei propri pensieri, e mentre lo fanno, toccano temi che ci arrivano addosso ogni giorno — ma che il linguaggio del telegiornale ha ormai svuotato. Questa ibridazione non è una scelta estetica: è una strategia etica. Per raccontare storie complesse serve un linguaggio che non spaventi, che non respinga. Serve un codice che possa accogliere lo spettatore, guidarlo dentro l’abisso senza mai perderlo.
È qui che il “pop” diventa chiave. Non come semplificazione, ma come passaggio obbligato per rendere accessibile l’inaccessibile. In ogni sua forma, la scrittura di Loddo cerca un nucleo narrativo che parte dal consentito — dal familiare, dal quotidiano — per aprirsi a un orizzonte più ampio, più urgente, più universale. Perché l’arte, alla fine, è questo: un’eco che parte da un punto preciso e arriva ovunque.
Territorio come materia drammaturgica
C’è un momento in cui Domenico Loddo parla della sua terra e usa un’espressione che spiazza: «la racconterei distruggendola, ma con le parole». Non è una provocazione. È un’idea precisa di cosa significhi scrivere dal margine. Significa non accettare le narrazioni consolidate, non assecondare le immagini da cartolina, non girare intorno alla verità per paura di turbare. Significa, soprattutto, rimettere mano alla storia — e smontarla pezzo per pezzo, per vedere cosa può ancora dire.
Loddo viene da Lazzaro, in un tratto di costa che guarda lo Stretto e lo attraversa ogni giorno con lo sguardo, aprendosi all’Area Grecanica. La sua scrittura nasce lì, in quel confine liquido dove la memoria è fragile e il presente sembra sempre precario. Ma non è un teatro regionale, il suo. È un teatro che usa il territorio non come folklore, ma come materia viva da interrogare, da mettere sotto pressione, da riscrivere. Perché in fondo il territorio è anche questo: un deposito di storie non dette, di tragedie rimosse, di voci coperte dal rumore del tempo. Come quelle di chi morì nel terremoto del 1908, o dei migranti mai arrivati a riva. Sono storie che restano lì, a galleggiare nell’indifferenza, finché qualcuno non trova le parole per riportarle in superficie.
Il teatro, per Loddo, è quel gesto. Una voce che rompe la superficie, che disturba, che non consola. Ma che almeno tenta di lasciare un segno. Non per cambiare il mondo — sarebbe ridicolo pensarlo — ma per non lasciarlo del tutto intatto. Perché se la storia si ripete, come lui dice, allora ogni racconto può essere un argine. O almeno un appiglio. Non c’è bisogno di finali edificanti. Basta l’urgenza di esserci, e di raccontare. Anche quando nessuno lo ha chiesto. Anzi, soprattutto allora.