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Lavoro nero, discriminazioni e abusi: in Calabria il diritto si ferma ai cancelli delle aziende

Retribuzioni da fame, violenze taciute, salute ignorata: ecco il volto sommerso dell’occupazione nella regione con il tasso più alto di irregolarità d’Italia. Dove le donne pagano il prezzo più alto

Lavoro nero, discriminazioni e abusi: in Calabria il diritto si ferma ai cancelli delle aziende

In Calabria il lavoro non è sempre sinonimo di dignità. Anzi, spesso diventa tutt’altro. I numeri raccontano una realtà che grida vendetta: quasi un quinto dell’economia regionale si regge su occupazione irregolare. Una rete vasta, radicata, spesso invisibile, che coinvolge migliaia di lavoratori e lavoratrici ridotti a forza produttiva silenziosa e ricattabile. Secondo l’ultimo rapporto dell’Osservatorio Regionale sulle discriminazioni, il peso dell’economia non osservata in Calabria ha raggiunto il 19,1% del valore aggiunto complessivo, contro una media nazionale ferma all’11,2%. È una fotografia impietosa, che relega la regione ai margini del sistema di tutele previsto dallo Stato. E in questa marginalità si inseriscono con forza lavoro nero, caporalato, salari da fame, violenze taciute, discriminazioni sistemiche

Il costo economico dell’illegalità diffusa 

Nel solo 2022, il valore del lavoro irregolare in Calabria ha superato i 2,5 miliardi di euro, una cifra che racconta con evidenza quanto questa piaga incida sull’intero sistema economico locale. A livello nazionale, il lavoro irregolare vale oltre 69 miliardi di euro, con la Calabria che si colloca in una posizione drammaticamente avanzata tra le regioni del Mezzogiorno. Il fenomeno, come evidenzia anche uno studio della CGIA di Mestre, è soprattutto una questione di violenza sociale. Troppo spesso, infatti, il lavoro nero coincide con lavoro forzato, imposto da reti criminali che si muovono nel silenzio dei controlli e nell’ombra dei cantieri, delle serre, dei mercati. In particolare, sono i lavoratori stranieri ed extracomunitari – che in Calabria rappresentano circa il 15% della forza lavoro – a essere vittime di forme moderne di schiavitù. 

La saldatura tra discriminazione etnica, povertà strutturale e assenza di tutele crea un sistema parallelo che sopravvive e prolifera proprio grazie alla vulnerabilità di chi lavora. A questa realtà si affianca un’altra violenza, più subdola, meno visibile ma altrettanto pervasiva: quella che si consuma nei luoghi di lavoro “regolari”. 

La violenza che lavora accanto a noi 

È un universo sommerso anche quello delle molestie, del mobbing, delle micro-aggressioni. L’Osservatorio regionale denuncia che almeno il 60% dei lavoratori e delle lavoratrici afferma di conoscere direttamente episodi di violenza sul posto di lavoro. Ancora più impressionante è il dato secondo cui il 42% ne è stato testimone o vittima. Una realtà che raramente emerge, per paura, per solitudine, per rassegnazione. Nel dettaglio, il 56% degli intervistati ha subito violenza verbale, il 53% mobbing, il 37% abuso di potere. Seguono dati meno numerosi ma non per questo meno allarmanti: violenza fisica (10%), stalking (6%), violenza online (2%)

Si tratta spesso di comportamenti normalizzati, banalizzati, assorbiti nella routine quotidiana del lavoro. Eppure, il loro impatto sulle persone è devastante. Il corpo e la psiche diventano terreno di conquista di chi esercita il potere, in un contesto dove la gerarchia diventa dominio e la produttività viene imposta a qualunque costo. E così, ogni giorno, centinaia di persone entrano nel proprio posto di lavoro non con la speranza di costruire il proprio futuro, ma con la paura di non sopravvivere al presente. 

Retribuzioni da fame e il peso insopportabile del genere 

Nel sistema distorto del lavoro in Calabria, le donne rappresentano l’anello più debole. Non solo sono penalizzate dalla precarietà e dall’irregolarità, ma anche da una strutturale disuguaglianza salariale che le accompagna in ogni settore, a ogni livello. I dati forniti dall’INPS, riferiti al 2022, raccontano una realtà medievale: a parità di mansione, il salario settimanale di una donna è sistematicamente inferiore a quello di un uomo. Tra i lavoratori comunitari, le donne percepiscono mediamente 436 euro a settimana, contro i 496 euro degli uomini. Ma è sul fronte degli extracomunitari che la forbice diventa abisso: 243 euro per le donne, 326 per gli uomini

La discriminazione retributiva si amplifica con l’istruzione. I dati raccolti evidenziano che più il livello di istruzione aumenta, più cresce il divario salariale a sfavore delle donne. È un paradosso solo apparente, che in realtà rivela un meccanismo ben rodato: alle donne non solo si chiede di essere più qualificate, ma si offre comunque meno. Un contesto in cui la forza lavoro in rosa diventa sinonimo di sacrificio invisibile, di talento svilito, di competenze sottopagate. È la forma più insidiosa di una cultura del lavoro che ancora oggi nega il riconoscimento economico come strumento di equità. O è forse anche figlia di quel vizio di forma preistorico che vede la donna ancora un passo indietro all’uomo, difficilmente di lato e mai davanti. 

Un sistema irregolare per definizione 

Se si analizzano i dati del 2023 forniti dall’Ispettorato Nazionale del Lavoro, emerge con chiarezza quanto il fenomeno sia diffuso e praticamente tollerato, si potrebbe addirittura dire strutturato. Su oltre 80 mila ispezioni eseguite in tutta Italia, il 74% ha riscontrato irregolarità. Un dato spaventoso, che rivela l’estensione sistemica del problema. I lavoratori coinvolti sono stati oltre 328 mila, di cui più di 21mila in nero. I settori più colpiti? Il terziario (71,6% di irregolarità), l’edilizia (69,1%), l’industria (69,4%): comparti nevralgici per l’economia, che si reggono in larga parte su rapporti di lavoro non conformi alla legge. 

Nel dettaglio calabrese, i numeri restano drammatici. Nel 2023, l’INPS ha registrato 365 aziende irregolari, 1.626 lavoratori irregolari e 15 persone in nero. Un dato significativo riguarda i rapporti di lavoro fittizi annullati, cresciuti del 23% rispetto all’anno precedente: segno che il sistema trova ogni giorno nuovi modi per aggirare le regole. 

Salute e sicurezza, le prime vittime 

Il dato più allarmante, però, arriva dalle irregolarità legate alla salute e sicurezza. In Calabria, oltre il 55% delle violazioni accertate riguarda proprio la tutela della persona nei luoghi di lavoro. Segue il lavoro nero con il 42,6%, mentre caporalato e orario di lavoro registrano percentuali minori ma non trascurabili. E non perché il problema non ci sia, anzi. La gerarchia delle violazioni racconta una verità inquietante: il profitto viene sistematicamente anteposto alla vita umana. L’assenza di misure minime di sicurezza, l’inosservanza delle normative di base, la negazione della dignità fisica e psicologica del lavoratore sono elementi ricorrenti in centinaia di contesti produttivi, soprattutto in Calabria e nel Sud. 

In troppi casi, le vittime accettano in silenzio per paura di perdere anche quel poco che hanno. Il ricatto è permanente, quotidiano, mascherato da opportunità. È qui che si consuma la più subdola delle violenze: quella che fa apparire come lavoro ciò che lavoro non è. Quella in cui sei quasi costretto a dire “grazie” per essere sfruttato, perché – come dice un antico proverbio – “piuttosto che niente è meglio piuttosto”. 

Caporalato, l’altra faccia della criminalità 

Dietro le cifre, ci sono persone, famiglie, vite. Esseri umani. Donne e uomini che raccolgono frutta sotto il sole per dodici ore al giorno, che lavorano nei cantieri senza tutele, che dormono nei campi o in baracche fatiscenti, senza contratto, senza diritti, senza voce. È questo il volto del caporalato, che in Calabria continua a prosperare con modalità sempre più violente e organizzate, secondo logiche criminali. I lavoratori extracomunitari sono i bersagli più frequenti: circa il 15% della forza lavoro calabrese appartiene a questa categoria, e molti di loro vivono condizioni, come ci racconta anche la cronaca di questi ultimi anni, che rientrano a pieno titolo nella definizione di lavoro forzato. 

Un Paese che accetta di sfruttare se stesso 

I dati raccolti dall’Osservatorio regionale sulle discriminazioni restituiscono un’immagine chiara e spietata: il lavoro in Calabria non è sempre un diritto, talvolta è una concessione, spesso un ricatto. Chi alza la testa rischia di perdere tutto. Chi denuncia troppo spesso si trova solo. Chi pretende giustizia viene deriso come illuso.  

Non si può più parlare di episodi isolati. Non si può più fingere che la questione sia solo “meridionale”. Quando il lavoro si trasforma in sfruttamento, quando le discriminazioni diventano sistema, quando la sicurezza è un lusso, allora non siamo più in una democrazia compiuta. Serve una risposta radicale, e serve adesso. Perché ogni giorno che passa, il diritto al lavoro muore un po’ di più. E con esso, anche la credibilità di un Paese che sembra disposto ad accettare lo sfruttamento come prezzo inevitabile della propria economia. In un pezzo del proprio paese che va tutelato ad ogni costo. 

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