martedì,Aprile 23 2024

Conurbazione dello Stretto, tra ponte, referendum e bergamotto

La riflessione di Francesco Tripodi sull'idea di unificare le città di Reggio Calabria e Messina

Conurbazione dello Stretto, tra ponte, referendum e bergamotto

di Francesco Tripodi

Credo, se non erro, che la definizione della “Conurbazione dello Stretto” si debba a Lucio Gambi nei Quaderni di Geografia umana per la Sicilia e la Calabria, durante la sua lunga permanenza all’Università di Messina.

La visione di Gambi anticipa gli studi e le pianificazioni di Giuseppe Samonà e di Ludovico Quaroni, quindi del Progetto ‘80 di Ruffolo, che è l’unico piano nazionale, tra i tanti, ricco di significative proiezioni territoriali. Il progetto ‘80 considererà la regione metropolitana dello Stretto come la più meridionale tra le conurbazioni del paese: ne farà un suo elemento pilota, tra i pochissimi individuati nel Mezzogiorno. Riprende in sostanza Gambi, e gli studi che ne seguirono.

Gambi concludeva un suo saggio del ’60 scrivendo: Una unità, quella tra Messina e Reggio, che si «è ricomposta in modo più forte di prima e molto rapidamente»… «la validità di questa conurbazione è evidente e sicura, ma le sue basi non risiedono in un particolare slancio industriale della regione — come è stato da cinquantanni in qua nelle altre conurbazioni italiane — e invece consistono nella funzione di giunzione tra la penisola italica e la Sicilia che la regione dello Stretto esercita…».

Non ponti, nè referendum, ma volontà di stare insieme, solo questo potrebbe unire le genti dello Stretto. Volontà e ponti di conoscenza, prima dei referendum calati dall’alto sulle necessità quotidinane che negano la civiltà alle genti che vivono sulle sponde bagnate dallo stesso mare, ma che, oggi, sembrano divise da una frontiera.

Conoscenza, consapevolezza di essere vicini, amici, fratelli e dopo, forse il Ponte. Altrimenti, come scrisse Giuseppe Campione: “Dell’antica relazione geografica tra Reggio e Messina rimarrà la servitù di passaggio”. Racconto questa storia e mi piacerebbe che, chi la leggesse, la raccontasse almeno ad altre tre persone ed i professori la insegnassero ai loro alunni integrando il programma del prossimo anno scolastico.

Non sono uno storico di professione, ma per questo mestiere ho svolto un lungo apprendistato a contatto con professori che mi hanno introdotto ad una disciplina unica seguendo un metodo rigoroso. Tra questi ricordo gli occhi fissi di Pippo Barbera Cardillo, il mio professore di Storia Economica, che da dietro gli occhiali rotondi mi fissavano con una serietà ed un rigore che non avevo mai visto prima. Pippo Cardillo mi fissava e mi diceva: “Francesco, la Storia è una scienza, deve cercare di indagare, spiegare e divulgare con metodo le vicende dell’Uomo, altrimenti quello che sappiamo potremmo raccontarcelo facendo le chiacchiere al bar bevendo un caffè. Francesco, la Storia è una cosa seria”.

Quando penso alla storia delle genti che hanno vissuto lungo le sponde dello Stretto di Messina penso ad un grande albero con delle radici fitte, ben diramate, radici che penetrano in profondità la terra del tempo. Ad ogni radice corrisponde la data di un avvenimento, magari remoto, magari lontanissimo nello spazio dalla nostra terra, ma di fondamentale importanza per la vita del nostro albero comune.

Quello che siamo oggi lo dobbiamo alla “Cultura Agrumaria” che ha messo insieme metodi di coltivazione, mezzi di produzione, la Chimica, l’Economia, l’evoluzione dei mezzi di trasporto, la nascita degli Stati Nazionali, la Moda, la Medicina, le grandi scoperte oceaniche ed in fine le vite dei nostri avi che a colpi di zappa e dinamite hanno rivoluzionato per sempre la nostra terra per scendere dai monti alle marine per impiantare le piantagioni di piante che, non senza grandi sacrifici, li resero non ricchi, ma aperti al mondo intero.

Quando si pensa alla storia dello Stretto di Messina si pensa alla cosidetta “Periferia dell’Impero”, ma durante il XIX secolo i nostri agrumeti e la nostra “Cultura Agrumaria” hanno contribuito in maniera determinante alla Rivoluzione Industriale ed alla nascita dei grandi Stati Nazionali.

Questa storia potrebbe iniziare con le due arance ed un limone che nel 1747 James Lind medico della Marina britannica consegnò a due marinai per curarli dallo Scorbuto scoprendo che arance e limoni erano l’unica cura per una malattia che aveva impedito i viaggi in mare a lunga distanza e la concentrazione dei contadini nei grandi centri urbani.

Dopo il terremoto del 1783 con l’Editto reale per lo stabilimento ed ampliazione de’ privilegi, e del salvacondotto della Scala e Porto Franco della città di Messina (1784), Ferdinando IV di Borbone invitava, in particolare, “tutti gl’Individui di tutte le Religioni e Sette attualmente esistenti, e tollerate in Europa, non esclusivi Maomettani, e gli Ebrei” a venire a risiedere nella “nobile e fedele città di Messina, emporio in altri tempi del Commercio de’ due mari” per riportare il commercio marittimo messinese “ad un felice risorgimento per quella strada, che le combinazioni dei tempi, ed i privilegi della situazione, del suolo, e del clima lasciano aperta a questa intrapresa nella sfera della mercatura e del commercio”.

L’editto permise a Messina, per tutto il XIX secolo, di divenire, grazie alla sua borghesia straniera, una delle città più importanti del Mediterraneo con effetti rivoluzionari per la sponda reggina che ne costituiva il grande retroterra rifornendo il Porto Franco di Messina di beni di ogni genere.

Contemporaneamente a Koping in Svezia nella sua piccola farmacia Carl Wilhelm Scheele scopriva l’acido citrico. Questa scoperta lanciò la corsa dei governi dei grandi stati europei, soprattutto di Francia e Gran Bretagna, ad accaparrarsi una risorsa di fondamentale importantanza per lo sviluppo delle loro economie. In gran segreto i due governi iniziarono a condurre esperimenti per produrre acido citrico in grandi quantità. I francesi seguendo le indicazioni del grande chimico Antoine-François de Fourcroy iniziarono ad importare dalle colonie americane ingenti quantità di Lime per sfruttarne il succo. Gli inglesi seguendo i precetti di un altro grande chimico Samuel Parkes avviarono degli esperimenti per la sintesi dell’acido citrico negli agrumeti intorno a Messina.

Intanto la Rivoluzione Francese arrivava sullo Stretto e lungo le fiumare delle due sponde le piantaggioni si infittivano a dismisura divenendo vere e proprie giungle ordinate e chiuse dai muretti a secco. Grazie alla Eversione della feudalità, i ricchi borghesi provenienti dalle città e dai paesi aspromontani, iniziarono ad acquistare terreni che vennero bonificati e trasformati da seminativi a terreni irrigabili. La messa a coltura delle marine fu seguita dalla discesa a valle delle genti dell’ Aspromonte.

Si stipularono contratti d’affitto nuovi, mai visti prima, si impiegarono metodi e tecniche di coltivazione nuovi ed innovativi per produrre nuove varietà di agrumi che consentissero una produzione prolungata dei frutti che venivano esportati in tutto il mondo. Nacque una nuova realtà ed una nuova mentalità. Come scrisse Lucio Gambi, passammo dall’arcaismo al mare aperto.

Nel 1820 veniva fondata a Reggio la ditta di Salvatore Rognetta che durante la sua lunga attività ricevette i migliori riconoscimenti per la produzione delle essenze di Bergamotto. La ditta Rognetta raccoglieva una tradizione secolare che avrebbe innovato per esportarla in tutto il mondo.

Nel 1830 parte dal porto di Messina il primo carico di agrumi verso quelli che sarebbero divenuti gli Stati Uniti d’America instaurando un legame commeriale senza precedenti con l’altra sponda dell’oceano che per un lungo periodo avrebbe regalato un monopolio quasi assoluto agli agrumi provenienti dallo Stretto di Messina.

Lungo tutto questo arco di tempo, grazie ai prezzi sempre crescenti, l’impianto degli agrumeti si diffuse fin sulle colline arrivando a soppiantare la vite, il gelso e l’ulivo. Milioni di tonnellate e fiumi di succo di limone e bergamotto prendevano il largo dal porto di Messina raggiungendo le grandi metropoli europee ed americane. L’agro crudo e l’agro cotto contenuti in delle botti, giunti nelle città inglesi venivano trasformati in acido citrico.

Questo prezioso prodotto permise alle industrie tessili inglesi di produrre e stampare in modo meccanizzato e massivo i panni di calicò. Inoltre, usato come additivo impediva l’ossidazione dei colori rendendo le stoffe stampate di colori brillanti e duraturi. Questo doppio vantaggio, acquisito grazie all’acido citrico derivato dal succo dei limoni e dei bergamotti proveniente dalle due sponde dello Stretto, permise alle stoffe inglesi di conquistare il mondo della Moda del XIX secolo.

Questa lunga storia meriterebbe un libro e forse uno scrittore migliore. Sono convinto che la nostra storia sia una cosa seria, ma come scrisse Maurice Aymard, introducendo un bellissimo libro, questa storia ha tante false apparenze e soltanto se riusciremo a guardare oltre, scopriremo chi eravamo e chi siamo davvero.

Ricordo di aver visto l’immagine di uno stand autarchico durante una delle tante fiere del regime fascista. Nello stand erano esposti tanti flaconi contenenti profumi ed essenze di Bergamotto. Al di sopra degli espositori con le bottiglie brillanti con belle etichette si estendeva una scritta con i caratteri littori che recitava: “Reggio fa da sé”.

Il regime fascista, anche per ragioni di propaganda, dette un largo spazio ai “prodotti autarchici”. Nacque in questo periodo il modo di dire “roba di prima”, volendo indicare la merce di qualità.”Prima” non era però inteso come contrazione dell’espressione “prima qualità”, ma stava a significare “roba di prima delle sanzioni” – e quindi dell’autarchia, con riferimento iniziale ai tessuti (quelli inglesi erano ritenuti i migliori), poi esteso a tutte le merci e ai cibi.

Quella scritta resta una delle grandi false apparenze della nostra storia perché Reggio non ha voluto, o non ha mai saputo, fare da sé.

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