L’INTERVISTA | Di scioglimenti, di Fondazione Alvaro e di San Luca: Saverio Zavettieri ruggisce contro «una ricetta che ha fatto il gioco della mafia»
L'ex deputato chiama a raccolta chi ha voce e strumenti per cambiare rotta: «Gli intellettuali tornino a parlare della Calabria». E denuncia l’assenza della politica: «Solo la cultura ha tenuto in piedi la questione meridionale, oggi invece regna il silenzio»

Lo scioglimento della Fondazione Corrado Alvaro, disposto dal prefetto di Reggio Calabria, ha aperto una ferita che va ben oltre i confini di San Luca. Un ente culturale intitolato al più grande scrittore calabrese del Novecento, costituito da istituzioni pubbliche come il Comune, la Regione, la Città Metropolitana e l’Università, è stato dichiarato “inattivo” e commissariato. A distanza di pochi giorni lo scioglimento del Comune per presunte infiltrazioni mafiose. Un doppio colpo che ha scatenato reazioni forti, soprattutto da parte di chi, come Saverio Zavettieri, conosce a fondo la storia e la complessità di questo territorio.
Ex parlamentare e figura storica del socialismo meridionale, Saverio Zavettieri ha ricoperto incarichi istituzionali e amministrativi di rilievo, ed è oggi una delle voci più dure contro quella che definisce una strategia cieca e inefficace. «È un provvedimento inaudito. Non si era mai vista una cosa del genere» afferma in una intervista esclusiva ai nostri microfoni a pochi giorni dai “fatti” di San Luca. Ma quella che esprime non è solo indignazione. È una denuncia politica precisa, che accusa lo Stato di aver imboccato la strada sbagliata e di produrre, con le sue stesse azioni, il contrario di ciò che dichiara di voler combattere.
Quando la cura uccide il malato
«È una ricetta che alla fine ha fatto il gioco della mafia». Saverio Zavettieri lo dice con precisione chirurgica, senza cedere alla retorica e senza addolcire la sostanza. Ma perché una frase del genere, così netta, non è una provocazione? Perché non è un’accusa contro lo Stato, bensì un atto d’accusa contro un certo modo dello Stato di agire, soprattutto in Calabria. L’intera analisi dell’ex deputato ruota attorno a questo concetto, che lo stesso ripete in diverse forme e ribadisce in ogni passaggio: non serve meno Stato, serve uno Stato più giusto, più consapevole, più intelligente. Uno Stato che non si accontenti di commissariare, sciogliere, vietare, ma che si assuma il compito ben più difficile di costruire fiducia, investire nella presenza, generare anticorpi sociali reali.
Secondo Zavettieri, la repressione generalizzata non ha mai funzionato e continua a produrre l’effetto contrario. «Lo Stato è consapevole che alcuni interventi sono controproducenti, ma continua a farli perché non vuole ammettere che la cura è sbagliata». E la cura sbagliata, dice, sta diventando sistema: commissariamenti in serie, interdittive antimafia sulle attività agricole e commerciali, diffidenza strutturale verso intere comunità.
In questa logica, sciogliere una Fondazione culturale diventa un passaggio “naturale”. Ma per Zavettieri è il segno che si è superato un limite. Per l’ex deputato non si colpisce più il crimine, si colpisce l’identità stessa di un territorio. E il risultato, dice, è che «mentre lo Stato alza muri, la mafia – quella che resta – trova ancora spazio proprio in quelle fratture. Si crea distanza, si crea silenzio. E in quel vuoto la ‘ndrangheta sa ancora muoversi».
È da questa convinzione che nasce la sua denuncia più dura. Non per difendere San Luca in sé, ma per lanciare un segnale su ciò che, a suo avviso, sta accadendo a tutta la Calabria: una Regione trattata come terra di eccezione permanente, dove le regole cambiano e la repressione sostituisce la politica.
La Fondazione, la mannaia e il paradosso
Nell’analisi di Saverio Zavettieri, emerge con forza la convinzione che lo scioglimento della Fondazione Corrado Alvaro sia un passaggio simbolicamente e politicamente clamoroso. Per l’onorevole, la decisione prefettizia rappresenta oltre che un precedente grave, anche un cortocircuito logico, istituzionale e culturale. «Non si era mai visto che si commissari una Fondazione culturale» dice, sottolineando come l’ente sia stato costituito da soggetti pubblici – Comune di San Luca, Regione Calabria, Città Metropolitana, Università – e dunque lo scioglimento equivale a un atto di sfiducia verso tutte queste istituzioni messe insieme.
La motivazione? «Generica e risibile – la definisce Zavettieri -. Si parla di inattività, di squilibrio di bilancio per appena diecimila euro, e infine – come se non bastasse – del rapporto di parentela di un consigliere con un soggetto ritenuto mafioso». È questa la “ciliegia sulla torta”, quella che secondo lui viene utilizzata come giustificazione finale per dare legittimità al provvedimento. Ma per Zavettieri, questo modo di procedere viola non solo il buon senso, ma anche la Costituzione. «Diventiamo responsabili di quello che fanno altre persone?»
«Una Fondazione che non ha fini di lucro, che dipende interamente dai fondi dei soci fondatori, viene sciolta senza preavviso, senza diffide, senza tentativi di risanamento. Il risultato? Un gesto di rottura»compiuto proprio nel centotrentesimo anniversario della nascita di Corrado Alvaro. «È stato di cattivo gusto. Non si può commemorare Alvaro sciogliendo la Fondazione a lui intitolata». E non si può, aggiunge, fare finta che questo atto non abbia un peso simbolico devastante, dentro e fuori la Calabria.
Repressione a senso unico e reputazione distrutta
Secondo Zavettieri, lo scioglimento della Fondazione e quello del Comune non sono atti distinti, ma fanno parte di una stessa strategia, portata avanti da uno Stato che colpisce dove sa di poter colpire senza reazioni. È qui che la questione si allarga: non è più solo San Luca, è la Calabria tutta a finire sotto una lente fatta di sospetto e automatismi. «In un’altra regione nessun prefetto si sarebbe azzardato a firmare un provvedimento del genere» afferma, indicando Campania, Sicilia e Puglia come esempi dove le istituzioni locali sono più forti, più reattive, meno disposte a subire in silenzio.
«Ma in Calabria – aggiunge – tutto è possibile. È possibile sciogliere un comune per presunte irregolarità minime. È possibile associare un ambulante a un sistema criminale solo perché partecipa a una festa religiosa. Solo in Calabria succedono queste cose».
La radice del problema, per Zavettieri, è profonda: la Calabria soffre di una reputazione così compromessa da giustificare qualsiasi intervento eccezionale. «C’è una doppia legislazione: quella che vale nel resto d’Italia e quella che si applica qui». E in questo spazio deformato, «ogni azione prefettizia diventa più semplice, ogni sospetto più difficile da scalfire, ogni difesa più isolata». È il paradosso di una terra dove la legalità viene invocata per commissariare, ma mai per investire, ascoltare, o correggere gli errori.
Un territorio lasciato solo
Per Zavettieri, il caso San Luca non è altro che l’ultima tappa di un processo di isolamento sistematico. Commissariamenti, interdittive, chiusure, provvedimenti d’urgenza. Una sequenza che non cura, ma desertifica. A subire, sono comunità intere, trattate come fragili, colpevoli, irrilevanti. Il risultato, dice, è che «si crea un muro tra gli abitanti e lo Stato». Un muro che separa, che disconnette, che spinge verso il silenzio, verso la rassegnazione o verso l’antistato.
Eppure, lo Stato non cambia metodo. «Non ha mai fatto un bilancio dei commissariamenti, non ha mai valutato se hanno funzionato, se hanno lasciato anticorpi. Ma pretende che siano i sindaci a costruirli, senza mezzi, senza strutture, spesso senza neanche un segretario comunale». È qui che la denuncia si fa più pesante. Perché la Calabria, secondo Zavettieri, non è solo colpita dalle mafie, è anche ostaggio dell’inadeguatezza dello Stato. Non viene aiutata, viene gestita. Non viene responsabilizzata, viene disinnescata.
Lo dimostra – afferma – anche il modo in cui si è proceduto per San Luca: si è sciolto il Comune, poi si è sciolta la Fondazione. Un gesto che, nell’ottica di Zavettieri, non serve a tutelare la legalità, ma a “tappare la bocca” a un’intera comunità. «Così si trasmette un messaggio: se è infiltrata la Fondazione, allora è tutto infiltrato. Se è tutto infiltrato, tutto può essere sciolto». E in questo schema, nessuno è più difendibile, nulla è più salvabile. Una logica che, ancora una volta, avvantaggia solo chi vive nelle zone d’ombra.
Il grande assente: lo Stato che non ascolta
Zavettieri sposta il tiro non più solo contro la strategia repressiva, ma contro il silenzio che l’accompagna. Ed è forse qui che il suo discorso si fa più politico. «Mi scandalizza più la latitanza degli intellettuali e della politica calabrese che il silenzio del governo nazionale». Perché se da Roma ci si aspetta ormai poco, è dal territorio che dovrebbe alzarsi una voce. E invece, nessuno parla.
Il bersaglio non sono le istituzioni in astratto, ma la classe dirigente calabrese, «incapace di prendere posizione anche di fronte a un provvedimento così clamoroso. Se si comprendesse il danno che riceve la Regione, dovrebbero essere i primi a dire: “Ma che state facendo?”». E invece, il silenzio è totale. E forse, più colpevole ancora.
Ma non è tutto. A mancare – aggiunge – è anche una voce culturale forte, quella che un tempo reggeva la questione meridionale, che costruiva pensiero, che sapeva fare battaglia civile senza scadere nella lamentela. Zavettieri ne parla con amarezza, ma anche con urgenza. Perché, dice, senza cultura, senza pensiero, senza parole, non c’è più resistenza.
La frattura calabrese e lo sguardo di Roma
La riflessione di Zavettieri tocca anche i rapporti tra centro e periferia, tra Roma e la Calabria. È un’analisi dura, maturata in decenni di politica attiva e osservazione ravvicinata. Secondo lui, la frattura tra il potere centrale e la Regione è oggi più netta che mai. Non solo per la distanza geografica, ma per una rappresentazione distorta, radicata e irreversibile, che vede la Calabria come una terra perduta, residuale, da cui non ci si aspetta nulla se non problemi.
«La Calabria c’è solo perché c’è il porto di Gioia Tauro. E ci sarà, se si farà il Ponte sullo Stretto. Altrimenti, che interesse ha questa Regione per il contesto nazionale?» chiede con amarezza. Le sue parole pesano, anche perché non sono isolate. Zavettieri racconta di un giudizio politico costante, trasversale, che affonda le radici già nella Prima Repubblica, ma che oggi si è accentuato con la fine dei partiti nazionali e con il venir meno di ogni forma di rappresentanza forte.
Ciò che resta è una regione divisa, fragile, campanilista, facile da ignorare. E uno Stato che, al posto di investire per colmare il vuoto, consolida la distanza con azioni punitive e simboliche, come lo scioglimento di una Fondazione culturale. Una Regione senza peso, senza voce, trattata come un’anomalia da gestire con misure straordinarie, ma mai con fiducia. E in questa mancanza di fiducia reciproca, Zavettieri intravede la radice più profonda del problema.
La posta in gioco: chi parla, chi tace, chi si rialza
Alla fine dell’intervista ai nostri microfoni, Saverio Zavettieri non lancia uno slogan. Non cerca consolazione, non cerca consenso. Indica un bivio. Da un lato c’è la rassegnazione, la rinuncia, la solitudine civile. Dall’altro, una reazione consapevole, che non sia rabbia disordinata, ma una rivoluzione democratica dal basso, capace di riportare la parola, il pensiero, l’impegno al centro della vita pubblica.
«Ho fiducia che dal corpo della società possa nascere una risposta consapevole. Non una ribellione, ma un movimento fatto di cittadini, con le forme giuste, quelle democratiche». È un appello, ma anche una responsabilità. Perché, spiega, non ci sarà nessuna liberazione dall’esterno, nessuno verrà a salvare un territorio che non è in grado di difendersi da sé.
A fare la differenza dovrebbero essere gli intellettuali, le persone che hanno strumenti, visione, credibilità. «I più stanno fuori regione. Ma devono tornare a parlare della Calabria, a indicare una strada». Perché è la cultura, conclude, ad aver tenuto in piedi per decenni la questione meridionale. E senza cultura, senza parola pubblica, senza presa di posizione, resta solo il silenzio. Quello che oggi, in Calabria, si sente troppo forte.