mercoledì,Aprile 24 2024

Anna Francesca, tragica storia di una bambina mai nata

Il dramma dei genitori costretti a vedere la loro figlia morire nel grembo materno, in circostanze poco chiare. Hanno chiesto giustizia: ma il giudice ha escluso la responsabilità medica

Anna Francesca, tragica storia di una bambina mai nata

Anna Francesca non è mai nata, soffocata nella pancia della mamma per una gestosi non curata. Ma il dolore più grande per i genitori che devono sopravvivere al lutto è quello di sapere che sulla morte della loro piccola non è stata fatta giustizia. Il giudice di primo grado ha escluso le responsabilità medica del caso, nonostante il ctu nominato dallo stesso giudice abbia individuato profili di imperizia e responsabilità. Tra qualche giorno però si riparte con il processo in appello.

La storia di Anna Francesca

La storia comincia con la mamma di Anna Francesca a cui il ginecologo che la segue in un consultorio consiglia prudentemente un altro medico specialista che possa operare in una più idonea struttura ospedaliera, considerato che ha diagnosticato alla donna una gestosi.

La donna arriva da un noto primario, il quale, dopo visita ed ecografia, conferma la patologia gestosica e, di conseguenza, prescrive una terapia farmacologica. Lo stesso medico prescrive il ricovero per uno stato anemico della signora nel mese di maggio, ma tralascia di valutare adeguatamente le conseguenze della proteinuria (la presenza di proteine nelle urine) e dell’incremento dell’acido urico. Tutto questo sarà evidenziato dalle consulenze del ctu.

Succede che, nonostante la gestosi conclamata, nella visita del mese di giugno, un ritardo nell’accrescimento (facilmente valutabile con le tabelle di riferimento elaborate dalla comunità scientifica) non viene rilevato. Il ginecologo «effettuava controllo ecografico e non rilevava nulla di patologico» si legge negli atti, fissando appuntamento alla signora al mese successivo di luglio (sarebbe arrivata alla 36esima settimana di gestazione). I consulenti rilevano anche che, tra la visita di maggio e quella di giugno «si era verificata una restrizione dell’accrescimento fetale che avrebbe potuto essere facilmente constatata dal ginecologo se avesse prestato maggior attenzione ai risultati emersi col secondo esame».

La documentata restrizione dell’accrescimento fetale se non correttamente diagnosticato porta inevitabilmente alla morte del feto. Secondo la consulenza del ctu, il ginecologo aveva tutti gli elementi per poter accorgersi di quello che stava succedendo e avrebbe potuto fare in modo di evitare la morte del feto: aveva di base la diagnosi del ginecologo precedente che evidenziava la gestosi; aveva lui stesso riscontrato l’ipertensione e prescritto un farmaco anti ipertesivo, aveva visto la proteinuria ed infine il restringimento della placenta e il ritardo nella crescita del feto.

La tragedia e le responsabilità

La signora però prima di arrivare al giorno della visita, fissata il 21 luglio, il 19 luglio si sente male, ha una forte pressione alla pancia così, spaventata, corre nell’ospedale in cui lavora il suo ginecologo che non c’è. Il medico di turno, dopo aver fatto il tracciato e l’ecografia, non ritiene che ci siano le condizioni per avvertire il suo superiore: anzi monitora la signora e documenta di non riscontrare sofferenza nel feto.

L’unica anomalia è uno stato delle crescita inferiore alla norma «di soli 4 giorni» afferma. Ma il ritardo nella crescita del feto, in realtà, non era di soli 4 giorni, ma allarmante, in considerazione del fatto che, come detto dal ctu, l’ecografia effettuata dal ginecologo un mese prima, presentava valori patologici e la crescita del feto si era arrestata.

Succede qualcosa che merita un approfondimento: alla paziente con problemi di pressione non viene misurata la pressione, salvo poi la comparsa in cartella clinica di valori assolutamente normali (70/120) non in linea con la patologia certificata. E inoltre spariscono invece i radiogrammi dell’ecografia, non ci sono più la flussimetria e la biometria fetale.

Il 21 luglio la signora in preda a forti dolori ritorna all’ospedale, dove c’è nuovamente il medico di turno che l’aveva visitata due giorni prima, il quale effettua l’ecografia e stavolta comunica di non riscontrare più il battito della bambina. La donna dopo sei ore di attesa partorisce via cesareo un feto morto, del peso di un chilo e 500 grammi. Diagnosi finale: morte endouterina.

Il dolore senza fine di una madre

Da qui il calvario della donna. Che è vero, è riuscita a diventare mamma: ha avuto altri due bimbi, ma i bambini sono arrivati, tra mille difficoltà, con ansia e timore, nonostante abbia dovuto ricorrere alla cure di uno psicologo vive ancora del dolore della perdita di Anna Francesca. Un dolore che, confessa, non vuol lasciare perché è l’unica cosa che le resta di quella figlia che non ha potuto tenere in braccio neanche un istante.

Un dolore che rivive nelle parole devastanti che si è sentita dire in questi anni: umiliata da avvocati e rappresentanti delle assicurazioni perché tanto «la signora ha avuto altri figli». O per i nonni esclusi come parti in causa nel processo civile, dove neanche il padre sembra avere diritto al risarcimento. Come se la vicenda riguardasse solo lei.

La decisione del tribunale di primo grado

Ma la vicenda giudiziaria non è conclusa anche se le decisioni del giudice di prime cure non hanno dato ragione alla signora. Del drammatico caso di morte endouterina del feto di cui si è occupata anche l’avvocato Lina Caputo, esperta in management sanitario, che ha manifestato le sue perplessità sul caso e della sua gestosi sintomatica ingravescente che si è poi conclusa con la morte del feto. Secondo l’avvocato, il giudice del tribunale va contro quanto affermato e concluso dal ctu, dopo aver affermato di condividerne le argomentate conclusioni.

Secondo il ctu, infatti, come testimoniano le carte, la morte del feto poteva essere evitata con una serie di attività del ginecologo avrebbe dovuto compiere, delineando profili di responsabilità dello stesso. Ecco cosa scrive il ctu incaricato dal giudice:…«lo scambio metabolico e gassoso tra madre e feto rientra tra le numerose funzioni svolte dalla placenta, per cui si segnala solamente che la riduzione della superficie funzionale della placenta ha avuto un ruolo importante nel favorire il decesso del feto.

Questo, avrebbe potuto essere evitato attuando un attento monitoraggio della pressione arteriosa della gestante, con eventuale opportuno adeguamento della terapia farmacologica, e dello stato di salute del feto attraverso un più ravvicinato monitoraggio ecografico e, soprattutto, eseguendo uno studio flussimetrico delle arterie ombelicali e dell’arteria cerebrale media.

Alla luce di questi rilievi si osserva che nel corso del terzo trimestre di gravidanza, epoca in cui si è resa manifesta la gestosi EPH nella signora il dott. (…) non ha adeguatamente valutato la biometria fetale emergente dall’esame ecografico effettuato il 19 giugno perché in tal caso avrebbe consigliato alla gestante di eseguire un controllo ecografico più ravvicinato rispetto a quello da lui programmato per il 21 luglio ed avrebbe, opportunamente, raccomandato alla gestante di effettuare un esame flussimetrico per raccogliere informazioni sulla velocità del flusso e sulla elasticità dei vasi nei distretti arteriosi del feto, utili queste per poter meglio definire lo stato di salute della nascitura.

Indipendentemente dall’eziopatogenesi della restrizione dell’accrescimento fetale l’indagine ecografica documentava una restrizione dell’accrescimento fetale, che avrebbe potuto essere prontamente rilevata dal ginecologo se avesse confrontato la misura della circonferenza addominale con una tabella di riferimento biometrico, una siffatta condotta avrebbe consentito sia al sanitario, di gestire diversamente il decorso della gravidanza e ciò avrebbe potuto evitare il decesso del feto».

Una diversa condotta del medico avrebbe potuto evitare la morte, spiega il Ctu. E il giudice invece, analizzando la posizione del medico non trova a lui riferibile la responsabilità dell’accaduto, trova la domanda infondata e, per questo, rigetta per mancanza di nesso causale tra la condotta del sanitario e la morte del feto, morte causata, a detta del giudice, da un evento improvviso».

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