venerdì,Aprile 19 2024

Reggio, una città da riedificare e una comunità in macerie

Alla vigilia del voto regionale la riflessione di Francesco Tripodi

Reggio, una città da riedificare e una comunità in macerie

di Francesco Tripodi

Ultimo giorno di campagna elettorale. Domenica si voterà in Calabria, ma i mezzi di comunicazione nazionale sembrano non accorgersene, tenendo le luci puntate su quelle più importanti, quelle emiliane. Quelle potrebbero segnare il destino del governo nazionale, mentre quelle calabresi passeranno nell’anonimato. Chiunque vinca, in ogni caso, sarà indifferente, non sarà influente, non cambierà in ogni caso gli equilibri della politica nazionale. Ci saranno i commenti televisivi al momento degli exit poll e degli scrutini, ma quando i riflettori si spegneranno tornerà il buio mediatico salvo, poi, dopo qualche tempo, scoprire magari che qualche consigliere è stato eletto con pacchetti di voti pagati profumatamente dal partito nazionale ai boss locali, o magari che il governatore corrotto accettava mazzette in cambio di appalti ai boss locali, il ritorno, insomma, al buio di una normalità confortante e confortevole con i ruoli assegnati, con le star e le comparse, con il copione già scritto, con la Calabria e i calabresi nel ruolo riconoscibile e riconosciuto degli imputati, dei condannati.

La Nazione e la sua politica saranno già distanti, al sicuro sotto il sole dei riflettori, sempre in fuga e poco importa per chi fatica all’inseguimento, arrancando per ricucire lo strappo. Poco importa di chi si impegna tutti i santi giorni. Di chi combatte una guerra quotidiana per sopravvivere da straniero nella terra in cui è nato.

Ricordo che qualche anno fa Philippe Daverio, davanti alle telecamere della televisione nazionale, pronunciò queste frasi: “Reggio Calabria, un posto terribile, come Messina che è un altro posto terribile”, “è già un miracolo che la gente ci vada a vedere i Bronzi. Il problema non sono i Bronzi o il Museo, il problema è la città che è una catastrofe. È grottesco pensare che quei Bronzi lì possano essere richiamo turistico”.

Come spesso accade, tutti si indignarono, ci fu anche chi chiese ai parlamentari calabresi un intervento per ottenere le scuse. Non ci furono le scuse. Non ci fu neanche l’intervento dei parlamentari calabresi.

Capivo che quella era una provocazione, ma quello che mi colpì fu la volontà di tenere insieme le due città dello Stretto, Messina e Reggio in fondo all’abisso della civiltà. Due città con genti legate da un destino comune, un territorio unico diviso da uno specchio di mare.

Ogni anno, il 28 di dicembre, ricordiamo le vittime del terremoto del 1908, sul quell’evento che cancellò le due città dello Stretto tanto si è discusso, parlato e scritto e non a caso le migliori pubblicazioni sono quelle straniere. Forse perché per valutare quell’evento serve la giusta distanza. Noi invece non riusciamo a celebrare la rinascita di un popolo comune diviso da uno specchio di mare.

Noi, con quello che avvenne dopo la catastrofe, non abbiamo mai voluto fare i conti, non con le migliaia di morti, non con gli aiuti stranieri e con i sopravvissuti, non con le macerie e gli orfani, non con la ricostruzione infinita e le baracche di legno.

Non abbiamo voluto fare i conti con la società che riemerse dalle macerie dello Stretto dopo il 1909. Società e popolo ancora diviso in classi con il destino in mano, ancora una volta, di chi era arrivato al potere grazie al Risorgimento voluto da una Monarchia borghese. Società e popolo divisi in tanti nemici con una classe dirigente impaurita dalla società di massa che bussava alle porte chiuse dei palazzi nuovi chiedendo il conto per gli anni della schiavitù e dello sfruttamento. Società e popolo sottoposte alle esigenze di uno Stato liberale e liberista.

Anni difficili in cui le città furono riedificate con grandi sforzi, Messina, capitale commerciale della Sicilia, perse la sua borghesia “straniera” e cosmopolita che faceva da traino per Reggio, tenendo l’economia dello Stretto legata ai mercati internazionali. Reggio senza la borghesia internazionale di Messina perse capitali e la rete commerciale che ne aveva garantito la ricchezza per almeno un secolo. Messina e Reggio divennero due città chiuse con due popoli diversi, divise da un mare che sarebbe diventato frontiera.

Reggio sarebbe tornata ad essere una città chiusa tra quattro mura assaltata dalle elites della provincia che premevano alle sue porte per conquistare, finalmente, un posto nel palazzo dell’amministrazione comunale.

Città chiusa che con le Ferrovie, le Poste, senza un porto commerciale si condannava alla burocrazia. Città ferma, impantanata nelle mille inimicizie, terreno di conquista degli americani di ritorno e della rapace borghesia agrumaria in perenne affanno, alla famelica ricerca dei pagamenti in anticipo che l’avevano risparmiata dalla responsabilità imprenditoriale che i prodotti di pregio e finiti avevano da, sempre, imposto a chi aveva rischiato, scegliendo di vivere di Industria.

Una città da riedificare ed una comunità in macerie. Esiste un quadro al Museo Regionale di Messina che per la sua storia potrebbe riassumere quello che siamo attualmente. Una tela di grandi dimensioni dipinto da Girolamo Alibrandi nel 1519. Il quadro venne distrutto dal terremoto del 1908 e ridotto in oltre trecento pezzi che solo grazie al capace e paziente lavoro dei restauratori venne rimesso insieme ed esposto nel Museo di Messina sorto grazie alle opere rinvenute tra le macerie della città.

Quando mi trovo davanti a questo quadro, spesso con il Museo vuoto, in silenzio, resto ad osservare i vuoti sulla tela colmati con materiali diversi. Vuoti e brandelli di dipinto persi per sempre sotto le macerie di una città condannata alla rovina. Guardo il quadro, immagino le espressioni sui volti dei sopravvissuti, le loro voci disperate in cerca di aiuto.

Quel quadro, bellissimo, risorto grazie all’opera dell’uomo, assume, oggi, un valore simbolico unico nel suo genere, non più tela, ma simbolo della nostra riedificazione civile incompiuta.

Per tanto, troppo tempo, abbiamo cercato un nemico straniero, lontano da noi, alimentando la leggenda dello “scippo”, senza voler fare i conti con quello che siamo stati, senza voler guardare quello che siamo oggi.

Oggi, viviamo una catastrofe silente che arriva da lontano, che continuiamo ad alimentare, con la comunità dello Stretto divisa, con la democrazia ancora sepolta sotto le macerie del nostro presente. Con la pretesa, forse, di ricevere la civiltà infusa, come ricevemmo i soccorsi dagli stranieri appena dopo la catastrofe del 1908.

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