‘Ndrangheta stragista, nella requisitoria del pm la vera storia della Seconda Repubblica
I veri attori che hanno comandato ed eseguito le stragi. La ridefinizione sanguinosa degli equilibri dopo il crollo del muro di Berlino. E ancora: il ruolo di pezzi di servizi, della massoneria e della politica fino a Forza Italia, servita per trovare la quadra. Gli ultimi 30 anni nell’esposizione del procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo
di Alessia Candito
«Se oggi io vado sul corso Garibaldi e chiedo ad una qualsiasi persona che sta passeggiando se la ‘ndrangheta abbia partecipato alle stragi, chiunque mi dirà di no. Questo è il terrorismo mafioso, questa è la falsa politica della ‘ndrangheta». Quella che ha permesso ai clan calabresi di scrivere la storia d’Italia da protagonisti, addomesticare il passato e disegnare un futuro che dagli anni Novanta si accartoccia su un «eterno presente» nascondendosi fra gli spettatori.
Le verità con lo sconto sugli attentati calabresi
Sono passati quasi trent’anni dagli attentati calabresi contro i carabinieri che fra il dicembre del ’93 e il febbraio ’94 sono costati la vita ai brigadieri Fava e Garofalo e gravi ferite ad altri quattro militari. Gli esecutori materiali, Consolato Villani e Giuseppe Calabrò, figli di ‘ndrangheta uno neanche maggiorenne e l’altro che 18enne lo era a stento, sono stati presi e condannati quasi subito. Raccontati come picciotti, criminali nati, in cerca di armi e di gloria e presto dimenticati. Nel frattempo la ‘Ndrangheta è riuscita a rimanere l’unica delle mafie storiche raccontata con l’iniziale minuscola. Una strategia studiata per mimetizzarsi, sminuirsi, raccontando di sé verità parziali. Al ribasso. Comode.
Quelle “visioni” che hanno indotto Graviano a parlare
«Trent’anni di mistificazioni» dice il procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo, che oggi ha dato il via alla requisitoria che tira i fili di tre anni e 127 udienze di dibattimento. «Visionario» lo hanno bollato per anni i suoi detrattori. «Cacciatore di fantasmi e di teoremi». Eppure, l’inchiesta che Lombardo ha costruito sui reali mandanti di quelle stragi, il boss di Brancaccio, Giuseppe Graviano, e il mammasantissima calabrese Rocco Santo Filippone, espressione cristallina dello storico casato dei Piromalli, non solo è arrivata indenne al processo, ma in dibattimento ha convinto Graviano a parlare. E – magari inconsapevolmente – a confermare i pilastri di quell’indagine che non solo rende giustizia alle vittime, ma anche alla storia della Repubblica.
Le verità mancate che condannano all’eterno presente
«Il concetto di tempo – afferma il procuratore – è uno degli interrogativi che l’uomo porta con sé da sempre: la percezione del tempo è soggettiva o oggettiva? E come si misura? L’unità di misura internazionale del tempo è il secondo. Ragionando in secondi, dal primo gennaio del 1994 che è l’ultimo episodio su cui ci troviamo ad occuparci in questa sede, abbiamo aspettando la verità da 819milioni933mila secondi». Il prezzo? Un «eterno presente» in cui un Paese intero è stato costretto a vivere perché «con le stragi per noi il tempo si è fermato e questo eterno presente diventerà altro solo quando tutto quello che va ricostruito, sarà ricostruito fino in fondo» dice Lombardo.
La storia calabrese delle stragi di mafia
E gli attentati calabresi ai carabinieri fanno parte di diritto della storia delle stragi mafiose che hanno mutilato la democrazia e la Repubblica in Italia. Sono state il prezzo della sua evoluzione addomesticata ad un gattopardesco ripetersi di un presente sempre uguale, in cui cambiano i nomi degli attori ma non le regole. Si chiama «falsa politica», si declina nell’arte delle «carrette» e delle «tragedie» e della ‘ndrangheta è sempre stata l’arma più sofisticata.
Usata con perizia all’interno e all’esterno dell’organizzazione, per lasciare a pochi – «il coso di 7» evocato da Filippo Chirico intercettato in Gotha, i 7 del direttorio di cui ha parlato in dibattimento il collaboratore catanese Di Giacomo – le decisioni importanti e le strategie di massima, per anni è stata l’assicurazione sulla vita dell’élite dei clan calabresi. All’esterno raccontati al ribasso, all’interno protetti da una cortina di riservatezza che non ha permesso a truppa, colonnelli e persino generali di sentirsi ingannati o esclusi. Perché di certi affari – per norma e condizioni – non arrivano neanche a sentirne l’odore. E le stragi sono state uno di questi.
L’élite che ha votato per bombe, sangue e potere
A deciderle – è emerso nel dibattimento – sono stati in pochi. Inclusi alcuni che non sono imputati in questo processo, ma è comunque «tema di prova che deve essere esplorato e portato all’attenzione della Corte» per restituire un quadro completo di quanto successo in quegli anni. Poi si vedrà. Perché anche durante il processo, come dimostrano le innumerevoli integrazioni investigative e qualche accenno che Lombardo si è lasciato scappare, non si sono mai fermate. E di certo c’è, la procura lo sa e ci sta lavorando, che le date dalla stagione stragista vanno aggiornate.
L’omicidio Scopelliti e la nuova cronologia delle stragi
Quella scia di sangue non inizia con l’omicidio Lima nel marzo ’92, ma nel giugno del ’91. Pochi mesi prima dell’agguato costato la vita al giudice Scopelliti, in quei mesi impegnato nella preparazione dell’accusa per il maxi-processo, arrivato alle porte del giudizio in Cassazione. Un filone su cui da tempo – lo si sa da quando è stato ritrovato il fucile secondo le ipotesi usato per l’agguato e sono stati notificati gli avvisi di garanzia a pezzi da novanta di ‘Ndrangheta e Cosa Nostra – la procura esplora. Ma sono tessere che ancora devono essere inserite nel mosaico.
Le grandi famiglie che hanno detto sì
Per adesso si sa – perché è emerso in modo chiaro in dibattimento – che a dire “presente” alla proposta di Cosa Nostra di partecipare alle stragi e alle trattative che quel sangue, quelle bombe e quegli omicidi volevano innescare, sono stati i De Stefano. E lo ha spiegato il collaboratore Nino Fiume – sottolinea Lombardo – nel raccontare la reale decisione assunta nella riunione di Nicotera, allargata ai grandi capi della ‘ndrangheta, e a quelle successive durante la quale si è detto “ni” per dire “sì”. E con gli arcoti, c’erano i Piromalli, che sul fronte hanno schierato uno dei loro fedelissimi, Rocco Santo Filippone, internamente riconosciuto – «era lui il responsabile delle copiate dei massimi livelli» dicono i pentiti – ma tenuto al riparo da affari comuni ed eventuali inchieste. Sono stati loro a farsi carico della questione quando i reggini mettevano insieme i cocci della seconda guerra di ‘ndrangheta.
Intelocutori riconosciuti
Due famiglie, che i siciliani – e lo hanno detto tutti i pentiti dell’altro lato dello Stretto sfilati davanti alla Corte – hanno riconosciuto come unici interlocutori. Famiglie che di diritto fanno parte dell’élite dell’organizzazione tutta, forgiata al fuoco della prima guerra che ha seppellito la ‘ndrangheta storica di Mico Tripodo e ‘Ntoni Macrì. Due famiglie che fanno parte di una cerchia ristrettissima, ma che mai – e anche questo è emerso in maniera chiara in tre anni di processo – hanno escluso, né avrebbero avuto agio di farlo le grandi famiglie della Jonica. È il mandamento di Peppe Morabito “Tiradritto” che, dice fra gli altri Di Giacomo, «era anziano quindi veniva tenuto un po’ a lato, ma aveva un’autorità» e che a Milano esprimeva i Papalia, platioti che consideravano «Peppe De Stefano un fratello» dice Nino Fiume, e hanno giocato un ruolo fondamentale tanto nel riciclaggio dei soldi della ‘ndrangheta tutta, tanto nei rapporti con gli apparati di intelligence. E probabilmente non solo quelli italiani. Non a caso – ricorda Lombardo – è il capo assoluto dell’epoca Mico Papalia, oltre allo stretto nucleo familiare, l’unico a cui Nino Gioè chieda scusa per essersi fatto intercettare in via Ughetti, prima di morire, a quanto pare per un suicidio a cui molti stentano a credere.
Una gattopardesca storia di soldi e potere
Ed è questo il nodo fondamentale del processo “’Ndrangheta stragista” arrivato oggi alla requisitoria e delle stagione delle stragi del Novanta e delle trattative ad esse connesse. Una storia di potere, soldi, influenza che una serie di “forze”, con cui la ‘ndrangheta per decenni ha interloquito e collaborato da pari, non avevano intenzione di perdere quando il muro di Berlino è crollato, portando con sé anche i rapporti di forza, le strategie, le priorità strategiche e le rendite di posizione che all’ombra della cortina di ferro si sono consolidate. E non solo la ‘ndrangheta, ma le élite di tutte le mafie – che come Leonardo Messina spiega ai loro massimi vertici sono “Cosa Unica” – hanno avuto necessità di ricollocarsi. Di forgiare nuovi interlocutori politici e referenti istituzionali. E con loro tutta una serie di “poteri” occulti solo a chi stava fuori dai grandi giochi.
La vera partita degli anni Novanta
«Le mafie – spiega Lombardo – avevano capito che, modificandosi lo scenario a livello internazionale, anche per merito di Mani pulite, bisognava muoversi per tempo, individuando nuovi referenti politici». un’opera di ristrutturazione del potere che lo mantenesse identico a se stesso ed era «servente ad una strategia più alta». Di cui facevano parte pezzi dell’intelligence legate a Gladio e alle operazioni Stay Behind, pezzi di massoneria legati alla P2 per anni pasciuti come ultima carta (eversiva) da giocare, pezzi di imprenditoria, di politica e di istituzioni, che nel Paese con il partito comunista più grande dell’Europa occidentale per decenni hanno trovato ragione e ruolo nella lotta all’Unione sovietica. E quando il muro è crollato hanno dovuto trovare un’altra leva di pressione.
Tessere del mosaico
È questo lo scenario che ricostruisce il processo ‘Ndrangheta stragista, che non a caso nella gigantesca mole di atti che ha figliato conta con documenti su Gladio e l’operazione Stay Behind, con atti sulla P2 e testimonianze «sulla vera lista» che Gelliha offerto in cambio di un reintegro in quel Goi che il Gran Maestro Di Bernardo ha scoperto contaminato dai clan, in modo preponderante in Sicilia, in maniera irredimibile in Calabria, dove 28 su 32 logge erano in mano alla ‘ndrangheta. Una situazione ben nota anche al capo della massoneria mondiale, il duca di Kent, che – ha raccontato Di Bernardo in aula – «era già stato informato di tutto dall’Mi5», i servizi segreti inglesi. E poi le innumerevoli testimonianze, atti e rivendicazioni sulla Falange Armata, misteriosa sigla con cui attentati, bombe, omicidi – inclusi quelli di mafia – lettere e comunicazioni pseudopolitiche sono state firmate, secondo una strategia di depistaggio – oggi svelano i pentiti suggerita da settori dei servizi lunga anni e 1500 episodi. Una strategia politica, economica, imprenditoriale ma sempre eversiva.
L’ombra dei Piromalli sull’impero di Fininvest
E non a caso agli atti del processo sono finite anche le risultanze del processo Tirreno, che in tempi non sospetti ha raccontato come Sorrenti, «un imprenditore dei Piromalli e non un imprenditore estorto dai Piromalli» sia stato portato alla corte di Fininvest e coinvolto nel processo di costruzione del per lungo tempo monopolistico polo privato della tv nazionale. Perché è su Forza Italia e sul prodotto politico che da quasi 30 anni ha in Silvio Berlusconi il referente unico, che ha trovato la quadra quella stagione di sangue e trattative, di bombe e abboccamenti, di tentativi, sperimentazioni, di una classe politica spaccata «tra chi cercava contatti con gli amici di Enna» e «chi non voleva fermare le stragi». E questo lo ha confermato Graviano.
I messaggi in codice di Madre Natura
È da lui – spiega Lombardo – che arrivano innumerevoli conferme dell’impianto dell’inchiesta. Dopo decenni di silenzio, interrotto solo da sporadiche proteste e dichiarazioni, solo a Reggio Calabria ha accettato di sottoporsi all’esame. E per quattro udienze ha detto e non detto, ha lanciato messaggi, ha parlato di Berlusconi come socio infedele che la sua e altre famiglie siciliane hanno finanziato, della sua “discesa in campo” che il boss di Brancaccio conosceva con largo anticipo, di un impero del padre padrone di Forza Italia «e altri imprenditori milanesi» costruito con i soldi delle mafie come potrebbe provare una scrittura privata che i Graviano hanno e cui fa eco «il libretto che potrebbe provocare un terremoto» di cui ha parlato l’autista storico di Leoluca Bagarella, Toni Calvaruso.
E le verità minacciate
Per quattro udienze, Graviano ha anche accennato ai servizi coinvolti nel protocollo Farfalla che dava loro mano libera nelle carceri – gli stessi di cui parlano i pentiti che hanno avuto a che fare con Mico Papalia – con cui lui afferma di non aver mai avuto contatti ma di cui sa, alle verità mancate e che lui – ha assicurato – potrebbe rivelare sull’agenda rossa sparita di Paolo Borsellino, sull’omicidio del poliziotto Nino Agostino. Poi – improvvisamente, dopo un lungo tira e molla su sue intercettazioni che diceva impossibili da ascoltare e imprescindibili per poter deporre – ha deciso di tacere.
Scacco matto della procura
Magari ha pensato di aver recapitato messaggi a sufficienza. Il problema – per lui e forse per altri – è che anche la procura li ha recepiti. E alle sue parole ha cercato e trovato riscontri. Come tabulati, intercettazioni e testimonianze che negli anni delle stragi lo collocano in Sardegna, nei pressi della villa di Berlusconi, o al bar Doney, in via Veneto, dove Spatuzza e Graviano si incontravano per progettare il fallito attentato all’Olimpico, a pochi passi dall’albergo in cui, esattamente negli stessi giorni, Forza Italia ultimava la “discesa in campo” ufficiale di Berlusconi e Marcello Dell’Utri – dicono recentissime testimonianze raccolte – «incontrava calabresi e siciliani interessati al nuovo progetto politico». E forse per questo oggi Graviano sta attento, in aula non perde una parola, a volte si alza nervoso. E prende appunti. Magari per la memoria che ha già preannunciato.