Stragi di mafia, il boss svela la vera partita degli anni ’90: a processo va un’intera stagione
Il momento in cui le mafie hanno rischiato di perdere tutto, le bombe con cui hanno rivendicato un gattopardesco status quo, la prova degli accordi per fermarle e la soluzione Forza Italia. Continua la requisitoria di 'Ndrangheta stragista contro Graviano e Filippone
di Alessia Candito – Le stragi di mafia degli anni Novanta non sono state una vendetta dei clan contro lo Stato o un attacco indiscriminato per rispondere ad una stagione di repressione. La scia di sangue che siciliani e calabresi hanno fatto scorrere in continente aveva un motivo in primo luogo economico ed in secondo politico.
Sotto processo un’intera stagione
È qui che va cercato il vero significato di quegli anni ed è questo il nucleo duro della requisitoria del procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo, che con il processo “‘Ndrangheta stragista” ha svelato il ruolo dei calabresi, al pari dei siciliani protagonisti in quella stagione. Alla sbarra ci sono il boss di Brancaccio Giuseppe Graviano e il mammasantissima di Melicucco, Rocco Santo Filippone, considerati i mandanti degli attentati calabresi contro i carabinieri con cui la ‘ndrangheta ha firmato la propria partecipazione alla trattativa Stato–mafia. Ma in realtà a processo c’è un’intera stagione.
La (vera) guerra degli anni Novanta
Sono gli anni Novanta, crolla il muro di Berlino, crollano Dc e Psi, si stravolgono le priorità strategiche in Europa e nel Mediterraneo. E in Italia, le mafie – insieme a pezzi di servizi, di galassia nera, di massoneria e dei mondi che in essa confluivano – mettono in piedi un piano terroristico-eversivo. Non per rovesciare il sistema, ma per mantenere lo status quo in uno scenario politico, economico e strategico totalmente modificato. Del resto, in ballo c’erano le condizioni di esistenza delle mafie moderne. «Guardando al ruolo della ‘Ndrangheta e Cosa nostra in quegli anni – spiega Lombardo – avrete questa immagine davanti agli occhi: la componente politica vacilla, mentre Cosa nostra e ‘Ndrangheta sono al massimo del loro splendore. In quel momento storico dei primi anni Novanta sono potentissime, ricche, inserite in tutti i gangli vitali di un sistema economico e politico che ovviamente è fortemente inquinato dalle mafie. Però questo rischia di crollare».
Bombe a difesa del potere
Con i vecchi riferimenti partitici e istituzionali finiti nella polvere e gli assetti nazionali e internazionali in evoluzione, i clan hanno rischiato di perdere quei canali indispensabili per trasformare i capitali illeciti in ricchezza spendibile, influenza sui territori, margine di operatività. In una parola, potere. E hanno sbattuto i pugni sul tavolo e fatto esplodere le bombe nelle piazze, per ricordare a chi ha accarezzato l’idea di far a meno di loro che quella strada non era percorribile. Il «ministro che ha chiamato gli amici di Enna», lì dove si riuniva la Cupola, «per capire» ha raccontato Giuseppe Graviano nel corso del processo, per quel tentativo di fermare le bombe ha rischiato la vita.
Quelle componenti su cui «confidiamo venga fatta luce»
Il boss di Brancaccio, che per l’importanza che ha avuto ed ha i suoi chiamano “Madre Natura”, lo sa e può dirlo perché di quella stagione è stato uno dei protagonisti. Per alcune di quelle bombe è anche stato condannato. Ma non è questo – e lo ha dimostrato parlando a Reggio Calabria – a bruciargli. Perché in quella stagione le mafie non hanno agito da sole. Quella è stata una partita con più giocatori e innumerevoli interlocutori. Nazionali e forse internazionali. E c’era chi fra imprenditoria, politica e settori delle istituzioni ai soldi, al potere, ai voti delle mafie, esercito di riserva da attivare alla bisogna, non aveva intenzione di rinunciare. Componenti su cui – ha detto il procuratore aggiunto Lombardo nel corso della requisitoria – «confidiamo che venga fatta chiarezza».
La fretta di allora, la rabbia di oggi
Ma ad un accordo si è arrivati e un’interlocuzione, portata avanti alternando bombe e trattative, c’era. Così come c’era una strategia condivisa per dettare i tempi e i modi di quella discussione che, secondo quanto ha svelato il pentito Spatuzza, ha permesso a Graviano di affermare «abbiamo il Paese nelle mani». E a confermarlo sono la fretta del boss di Brancaccio allora, quando le bombe dovevano esplodere all’Olimpico per colpire ancora una volta i carabinieri e la sua rabbia oggi. Entrambe indicative di accordi, che all’epoca erano stati presi e si dovevano rispettare, ma tali non sono stati. Anzi, sono stati traditi. E per questo ancora bruciano.
«Fretta dettata dalla discesa in campo di Berlusconi?»
«Spatuzza ci dice che Giuseppe Graviano generalmente pianificava tutto nel dettaglio. Ci diceva giorno, luogo e ora di quello che dovevamo fare» ricorda il procuratore aggiunto Lombardo nel corso della requisitoria. Eppure, racconta Spatuzza a Roma c’è un cambio del modus operandi. L’attentato all’Olimpico si deve fare – ordina il boss di Brancaccio – e si deve fare al più presto. Una fretta – suggerisce Lombardo – che è lecito chiedersi se non fosse dettata dall’imminente discesa in campo di Berlusconi, annunciata con un video messaggio la sera del 26 gennaio, qualche giorno dopo il fallito attentato all’Olimpico.
Le rappresaglie possono attendere
Un obiettivo cui Graviano ha sacrificato anche la vendetta contro l’odiato Totuccio Contorno, considerato il responsabile dell’omicidio di suo padre. Ma c’erano accordi da rispettare, un programma che non si poteva guastare magari usando un esplosivo che avrebbe fatto da firma e non ci si poteva distrarre. La formula era stata usata in Calabria – spiega il procuratore aggiunto – con quell’M12 usato per firmare gli attentati ai carabinieri, poi rivendicati come Falange Armata. Una sigla usata per bombe in continente e non solo, omicidi, rivendicazioni, un rosario confuso di 1500 episodi – ha spiegato Lombardo – che serviva a depistare agli occhi dei più e farsi riconoscere dai pochi a cui quel sangue doveva parlare. Un omicidio di mafia avrebbe svelato gli autori e fatto saltare un piano messo in piedi da tempo. Neanche Graviano se lo poteva permettere.
Quel filo rosso dal Doney al Majestic
E poi bisognava fare in fretta. Con due attentati contro i carabinieri, i calabresi «già si erano mossi» ha riferito di aver saputo Spatuzza da Graviano e «solo chi era in contatto con i massimi vertici poteva sapere che quegli episodi erano da ricollegare ad una generale strategia stragista ed eversiva». In più c’erano accordi molto precisi da rispettare. Probabilmente non solo fra mafie. Ecco perché nel corso della sua requisitoria, Lombardo ci tiene a sottolineare come elementi che hanno a che fare con bombe e stragi «ritengo debbano essere completati facendo buon uso di quell’apporto dichiarativo dei soggetti che lavoravano all’hotel Majestic che ci parlano di incontri tra soggetti calabresi e siciliani».
La lista degli invitati al battesimo di Forza Italia
È in quell’hotel che Forza Italia è stata tenuta a battesimo ed è lì che Dell’Utri presiedeva incontri e riunioni mirate a strutturare il neonato partito. Anche con «personaggi calabresi e siciliani» ha riferito di recente chi lavorava lì «interessati al nuovo soggetto politico». E quella struttura – ricorda il magistrato – non dista più di 120 metri dal Bar Doney di fronte al quale – ha riferito il pentito Spatuzza, lui e Graviano si sono incontrati per pianificare il fallito attentato all’Olimpico. Il «colpo di grazia» per il boss di Brancaccio. Che circa una settimana dopo quell’incontro e a qualche giorno dal fallito attentato è stato arrestato.
L’inaspettato arresto di Graviano
Senza un’attività d’indagine specifica, Graviano è stato stanato a Milano. Lì dove per quasi un decennio – ha raccontato – ha fatto una latitanza dorata e ha più volte arrestato Berlusconi, «che la mia ed altre famiglie hanno finanziato». Lì dove indisturbato passava dallo shopping nel quadrilatero della moda alle cene nei ristoranti chic, dai veglioni in hotel alle passeggiate in centro. Lì dove non si aspettava di essere disturbato. Un antefatto che sembra spiegare anche la sua furia di oggi. «Lo abbiamo sentito benissimo che è arrabbiato – dice il magistrato – E il motivo è il suo arresto. Perché non se lo aspettava. E non se lo aspettava perché aveva preso accordi. La sua rabbia ci dice che gli accordi non prevedevano la sua cattura».
In aula la rabbia del boss di Brancaccio
Non si tratta di una semplice inferenza logica. La conferma sta in un dato che anche Graviano ci ha tenuto più e più volte a far emergere. «Che la sua cattura non fosse prevista lo dicono anche le modalità del suo arresto. All’epoca – e ce lo hanno detto i carabinieri in aula – non c’era alcuna attività investigativa su di lui al Nord Italia. Ci dice “io facevo la bella vita, andavo a Venezia, in Sardegna, vivevo sul lago d’Orta”. Graviano è convinto di essere stato venduto. In effetti alla cattura di Graviano si arriva attraverso una fonte confidenziale. Che è perfettamente legittimo. Ma è vero che non c’era alcuna indagine».
Giochi incrociati, pedine e vincitori
Significa dunque che Graviano – come ha più volte ha sostenuto – è vittima di un complotto, che non è un boss con le mani sporche del sangue di stragi e omicidi, ma solo un capro espiatorio? Assolutamente no. Che ci sia anche la sua firma sul progetto eversivo che ha sconvolto l’Italia lo dicono le sentenze, che ne faccia parte anche la parentesi calabrese, lo ha a suo modo confermato lui stesso in aula. Forse, nel grande gioco di cui faceva parte è stato considerato una pedina sacrificabile quanto meno per un po’. Magari, come ha ricordato il pentito Di Giacomo, sottolineando la tranquillità dei fratelli Graviano sicuri di non passarci poi molto tempo in carcere, da piani doveva essere una farsa destinata a durare poco. E adesso Graviano batte cassa. La ‘Ndrangheta invece? Almeno per trent’anni è riuscita a nascondersi e anche sui rapporti maturati negli anni Novanta, si è laureata mafia più potente del mondo.
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