venerdì,Aprile 19 2024

Rosarno, dieci anni dopo la rivolta. Dove il tempo si è fermato e lo Stato ha fallito

Quando il mondo si accorse di una integrazione mancata e dello sfruttamento. Dalla rimozione dei vecchi ghetti alla nuova tendopoli. Ma cosa rimane di quella sommossa?

Rosarno, dieci anni dopo la rivolta. Dove il tempo si è fermato e lo Stato ha fallito

di Agostino Pantano – I ghetti da cui partì la rivolta non ci sono più. A Rosarno, neanche del concentrato violento fatto di provocazioni pronte ad esplodere e rabbie in ogni momento ridestate, c’è più traccia apparente. Eppure, i 10 anni trascorsi da quei primi giorni del gennaio 2010 – passati alla storia per come imposero per la prima volta nel panorama europeo il tema dell’insubordinazione frutto di una difettosa integrazione dei migranti – sono l’orologio di un tempo che si è fermato, anzi per certi versi tornato indietro. Sono stati smantellati “la Rognetta” e “l’ex opera Sila”, così si chiamavano i due siti abbandonati che ospitavano gli africani in condizioni disumane, teatro di quel primo raid armato da cui tutto partì, orchestrato da rosarnesi rimasti senza nome. Eppure, anche se non ci sono più quei luoghi che erano diventati il bersaglio delle scorribande – l’anno prima ai braccianti avevano sparato con un fucile e gli autori del blitz erano stati arrestati per tentata strage, in quel 2010 la “miccia” che produsse la rivolta dei neri fu esplosa a colpi di carabina -, anche se quelle polveriere abitative sono state rimosse, di ghetto fisico e di valori a Rosarno si vive ancora. Una rabbia incontrollata mosse quel pomeriggio di migranti, che tramite la via Nazionale raggiunsero il centro cittadino colpendo auto, frantumando vetrine, sbarrando le strade e raggiungendo – col mezzo della violenza e del panico seminato – quel punto di non ritorno che durò 5 giorni e costò la reazione vendicativa di altri rosarnesi. L’impazzimento della caccia al nero, l’impossibilità di fermare le minoranze violente, l’intervento dei Cacciatori dell’Arma per impedire i rastrellamenti nelle campagne: scene che difficilmente possono essere dimenticate, ma sopratutto scene che accesero i riflettori del mondo sulla condizione di una integrazione fallita e di un’economia come quella agricola da anni impoverita, incapace di andare oltre la sussistenza. Tv di tutto il mondo arrivarono a Rosarno per raccontare “i fantasmi” che si erano ribellati, gli invisibili che senza passaparola organizzati – tra paghe da fame, giacigli inumani e l’incomprensibile violenza sprigionata dai pestaggi a chi osava chiedere un contratto – si destarono per agitare e chiedere conto.

Si mosse il governo dell’epoca e gli analisti tentarono le più disparate fotografie sociali in una cittadina dove pure la presenza dei lavoratori stagionali era largamente accettata da anni, anzi ben accolta, e dove di colpo però mancò la mediazione, saltarono i presidi democratici della convivenza: come una sorta di tappo che quella violenza contrapposta aveva sollevato, facendo fuoriuscire le lentezze e le disgregazioni di un modello sociale che era spontaneo e fondato sul volontariato, e tale per lunghi tratti è rimasto anche oggi.  La rivolta proruppe, assieme al territorio, nell’immaginario collettivo come monito – come etichetta – che avrebbe dovuto avvisare il Paese che gli anni a venire sarebbero stati, come poi sono stati, dell’esodo epocale che va governato. La risposta dello Stato, il finanziamento per la costruzione di alloggi, è oggi – a distanza di 10 anni e dei fiumi di inchiostri serviti per scrivere Protocolli lastricati di buone intenzione – un fallimento totale: edificate e chiuse la foresteria che doveva prendere il nome di “Casa della solidarietà”, nonché le palazzine che dovevano andare a 30 famiglie straniere. Tutti finanziamenti nazionali ed europei per ora sprecati, perché la risposta abitativa nella zona è ancora fatta dalla tendopoli di San Ferdinando – 500 posti e un luogo spesso teatro di incendi e morti -, e da altri ghetti sparsi nelle campagne. Anche sul fronte del diritto al lavoro la rivolta è passata invano, ancora tanti sono gli incroci stradali dove domanda e offerta di lavoro si incontrano sotto l’egida del caporale.

Eppure, la convivenza si amplia e c’è chi – o tornando per i lavori stagionali, oppure senza mai spostarsi da Rosarno – vive o sopravvive all’ombra di una agricoltura che trova sempre meno sbocchi sui mercati. Ed è questa forse l’unica integrazione perfettamente riuscita: africani e italiani sotto lo stesso cielo di un’economia asfittica, che assottiglia le ricchezze e accresce le emarginazioni. Ci si “parla” di più rispetto a 10 anni fa, forse, ma i linguaggi sono sempre il metro di una lunga distanza tra chi è qui per lavoro e chi quella dignità completa – da Stato civile, da Regione accogliente – non riesce a riconoscerla.                        

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