giovedì,Aprile 25 2024

Calabria irrecuperabile? Da Augias generalizzazioni. Ma non nascondiamo i problemi

Occorre un cambio di narrazione, che può scaturire solo da comportamenti che fanno comunità e dall'investimento nella cultura

Calabria irrecuperabile? Da Augias generalizzazioni. Ma non nascondiamo i problemi

di Claudio Careri – Nel mio quindicennio di expat in terre padane mi sono spesso imbattuto all’espressione “no hope land” per descrivere momenti di irredimibile sconforto nel commentare vicende calabresi. Imprecazioni e moccoli irripetibili, tali da fare inorridire Augias e le combriccole di idioti dell’orrore imperversanti sui social. Mi è capitato altresì di avvertire un pregiudizio atavicamente lombrosiano, tutt’altro che strisciante nei confronti dei calabresi. Preconcetti radicati, come se si potesse parlare di tribù omogenee, di realtà di laboratorio scientifico, di tare storiche mia cangianti.

“Eppure non sembra un calabrese”, o “fossero stati i calabresi doc”, sono espressioni che accompagnano i miei trascorsi quotidiani, cui rispondere facendo spallucce, cavalcando stakanovisticamente l’umiltà e il senso etico del dovere e rovesciando gli stereotipi, semmai concentrandosi sui punti di forza, ereditari o capaci di dare identità senza esaltazioni o relativizzazioni del pensiero altrui. A volte nell’inverno dello scontento c’è l’opportunità di un’invincibile estate. Bisogna sforzarsi di crederlo. Certo, rifuggendo dalle facili tentazioni a generalizzare e dalle lezioni con il ditino alzato di feroci conduttori di trasmissioni false. La Calabria esporta esperienze gastronomiche uniche, professionisti top nella medicina (basti pensare agli ultimi successi ottenuti da Fabrizio Chiodo), ma anche fior di criminali nel panorama mondiale e personaggi poco spendibili mediaticamente. 

Questo occorre riconoscerlo, senza vittimismo o assimilazione di comportamenti devianti, anzi battagliando antropologicamente contro i modelli propugnati dalla massondrangheta. Non nascondere problemi e criticità, ma non declinarli sempre e comunque come un portato di altri, o di complotti orditi non si capisce bene da chi e per quali ragioni. Per cui, se è anche comprensibile il riflesso pavloviano dell’arrocco nei confronti del razzista del giorno, occorre un “change the narrative” che può scaturire solo da comportamenti che fanno comunità, dall’investimento diffuso nella cultura e dal non voler dividere il mondo unicamente tra buoni e cattivi. Retorica a parte, come diceva qualcuno: “Ho insegnato che il problema degli altri è uguale al mio. Sortirne tutti insieme è la politica. Sortirne da soli è l’avarizia”. Insegnamenti attuali da tenere presente, magari anche nella cabina elettorale, fino alla prossima indicibile amarezza.

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