venerdì,Marzo 29 2024

A Polistena la proiezione del docufilm “Non è un caso, Moro” di Tommaso Minniti

L'incontro è stato promosso dalla Fondazione Girolamo Tripodi, nel 45° anniversario della strage di Via Fani

A Polistena la proiezione del docufilm “Non è un caso, Moro” di Tommaso Minniti

Si è svolta a Polistena la proiezione del docufilm “Non è un caso, Moro” del regista Tommaso Minniti. L’evento, tenutosi nella sala conferenze della Comunità “Luigi Monti” e promosso dalla Fondazione Girolamo Tripodi, nel 45° anniversario della strage di Via Fani, del sequestro e dell’assassinino di Aldo Moro, ha registrato una partecipazione attenta e qualificata di numerosi cittadini e cittadine, alcuni dei quali hanno anche preso parte al dibattito dopo la proiezione.
L’incontro è stato aperto da un intervento di Michelangelo Tripodi, presidente della Fondazione, che ha rivolto un sentito ringraziamento a tutti i partecipanti. Inoltre, ha ringraziato i relatori Giuseppe Fabio Auddino, Giancarlo Costabile, nonché gli amici attivisti che hanno collaborato alla riuscita dell’evento, Enzo Marafioti, motore dell’iniziativa e fratello Stefano per la gentile concessione dei locali della comunità Luigi Monti.

Un ringraziamento particolare ha poi rivolto al regista Tommaso Minniti per la sua presenza e per il coraggio dimostrato nella realizzazione di questo docufilm che consegna a noi e alle nuove generazioni la verità, finalmente, su un tragico e drammatico avvenimento della storia dell’Italia. Un docufilm straordinario che apre scenari inquietanti e getta nuova luce sull’affare Moro. «E’ evidente che colpendo Moro – ha affermato Tripodi – si voleva bloccare un processo politico che poteva cambiare l’Italia (il rapporto DC-PCI) e dare una nuova collocazione internazionale al nostro paese, recuperando autonomia e indipendenza. Il 9 maggio 1978, con la scoperta del corpo martoriato di Aldo Moro, si ferma la storia d’Italia. Nulla sarà più come prima e tutto cambierà in peggio.
Le BR, rappresentano lo specchietto per le allodole di un disegno più complesso nel quale svolgono un ruolo determinante i servizi americani. Tutto il contesto internazionale era contro Moro, non per ragioni personali (è noto che a Kissinger, Moro stava proprio antipatico e gli aveva promesso che gliel’avrebbe fatta pagare), ma per il tipo di operazione politica che egli stava portando avanti con l’ingresso del Pci nell’area di governo, in un paese come l’Italia che allora rivestiva una grande importanza sia in Europa sia nel Mediterraneo e che, dunque, non poteva uscire dalla logica di Yalta: ci pensarono gli americani a rimettere a posto le cose, con la violenza e la forza determinando la notte della Repubblica».

Subito è intervenuto l’ex senatore Giuseppe Auddino che ha sottolineato come «senza memoria e senza verità non ci sia futuro. Verità che sono state nascoste ai cittadini in questi 45 anni e che solo oggi, grazie all’encomiabile lavoro di inchiesta di Cucchiarelli e Minniti, emergono chiaramente. La verità è una necessità per le democrazie compiute che non può essere nascosta ai cittadini. Il caso Moro non è un “caso”: è tutto chiaro. È necessario ricostruire quelle verità che ci sono state nascoste anche per onorare degnamente il sacrificio delle vittime che hanno servito lo Stato fino all’estremo sacrificio. Non esistono verità scomode, ma solo dolorose», ha concluso Auddino.

E’ poi intervenuto, con un collegamento online, il prof. Giancarlo Costabile dell’Unical, che ha affermato che il caso Moro è da inquadrare nello scenario politico globale della guerra fredda. «Il controllo politico statunitense della fragile democrazia italiana – ha sostenuto – ha prodotto la legittimazione storica di un terrorismo di Stato e delle mafie come strumento di governo del sottosviluppo economico e civile del Mezzogiorno. Moro è stato assassinato dal sistema militare dei servizi segreti americani in chiave anticomunista. L’obiettivo era bloccare il processo di integrazione del Pci nella compagine di governo che avrebbe spostato a sinistra l’asse del potere nel Paese. La morte di Moro è una delle ferite più gravi inferte alla storia repubblicana italiana. Riconoscere questa verità è fondamentale per poter ricostruire la credibilità politica dello Stato italiano».

Infine ha preso la parola Tommaso Minniti, regista del docufilm, che ha voluto ricordare che «a Enzo Marafioti, il tipografo di Polistena con la passione per il jazz, non puoi dire di no, non riesci a dire di no. Ha visto il mio film e lo ha voluto proiettare in terra di Calabria. Io sono umbro e Polistena non mi è certo di mano, ma è inutile nascondere l’affinità con queste terre, se mi chiamo Minniti. Ho detto sì, ci sarò. Ci sarà, dice Enzo, Michelangelo Tripodi a sostenere l’operazione, ed io ho subito pensato: “chissà… sarà un bel test per capire come reagiranno esponenti dell’antica sinistra italiana a questo mio sfacciato documento”. E il test è presto fatto, perché fin dalle prime parole del film io mi espongo, chiamo in causa lo Stato e le forze politiche che hanno tradito a cuor leggero, o a malincuore il loro mandato popolare.

Il film è tratto dall’inchiesta di Paolo Cucchiarelli e riporta alla luce gli elementi chiave per capire, finalmente in modo credibile, e direi onorevole, il delitto Moro, anticamera del delitto Italia. Ed ecco fiorire in bocca a Michelangelo e Ivan Tripodi, figli di una tradizione politica storica, e a Fabio Auddino, di recente esperienza parlamentare, i primi attestati di affetto e stima. Si può dire tranquillamente che l’esempio di Moro non divide, perché non c’è nulla di più comprensibile del sacrificio di un martire per i beneficiari di quel sacrificio: noi tutti. Siamo infatti, fratelli in quel sangue che non si asciuga, a imitazione del Sangue che ci ha redenti, tutti senza meriti, 2000 anni fa. Il divisore stia alla larga dalla Storia e dal futuro dei giovani! È per loro che ancora Moro vive».

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