Dalla Costa d’Avorio a Caserta, passando dalle prigioni libiche e dal ghetto di Rosarno: a Reggio la testimonianza di Mamadou Kouassi – VIDEO
Non ha voluto mancare all’appuntamento del 3 giugno, il cosceneggiatore del film di Matteo Garrone Io Capitano, al quale si ispira la storia. Questa mattina, prima di rientrare, la visita al cimitero dei migranti di Armo: «Questo è un luogo sacro»
«Un luogo sacro in cui ritrovo il dolore che ho attraversato in Africa e anche in Europa per i primi lunghi sei anni dopo il mio arrivo. Il dolore che ricordo di avere visto negli occhi dei fratelli che con me, lungo il viaggio, cominciavano a non credere più che ce l’avrebbero fatta. Qui, a Reggio Calabria, quel dolore estremo della perdita è stato accolto. In questa memoria possono esserci i semi di un cambiamento anche dell’Europa. Il documentario che racconta la storia di questo luogo, e che tutti ovunque dovrebbero conoscere, è come il prosieguo di Io Capitano. Anche esso è la voce dei tanti, troppi, che invece non arrivano ma che in Europa e in fondo al Mediterraneo comunque restano. Grazie alla comunità di Reggio Calabria, restano ma con una degna sepoltura in un luogo che parla, racconta e testimonia una storia di grande umanità e solidarietà».
Questa mattina Mamadou Kouassi ha visto il cimitero dei migranti di Armo, nella zona collinare di Reggio Calabria. Ivoriano e ormai casertano di adozione, a cui si ispira l’odissea contemporanea narrata da Matteo Garrone nel film pluripremiato Io Capitano, ha voluto essere a Reggio Calabria in occasione della giornata di commemorazione delle vittime delle Migrazioni. Qui ha voluto conoscere l’esperienza di accoglienza in riva allo Stretto. Istituita dall’amministrazione reggina all’indomani dell’arrivo delle 45 salme di migranti morti in mare al porto di Reggio.
Un momento di grande dolore dal quale nacque un impegno che nel cimitero di Armo, zona collinare di Reggio Calabria, il Comune diede disposizione di seppellire quelle salme. Lì oggi sorge un cimitero dei migranti, un’opera-segno realizzata dalla Caritas Italiana, consegnata alla città nel 2022. Un progetto al quale ha contributo della diocesi tedesca di Paderborn, grazie all’intercessione dell’attivista in mare Martin Kolek. Un’esperienza raccontata anche nel documentario di Antonio Melasi, “Armo, storie di volontari e di migranti” proiettato a Caserta a marzo.
Su invito del coordinamento diocesano sbarchi e della Caritas, Mamadou Kouassi ha tenuto a essere presente in occasione del 3 giugno, per altro il giorno del suo 41esimo compleanno, anche per recarsi presso il cimitero di Armo. Qui, prima di ripartire, ha voluto rendere un tributo ai suoi fratelli e alle sue sorelle che non ce l’hanno fatta. Si è seduto tra le tombe, perché ci si mette accanto e mai sopra, ad ascoltare. Ieri la partecipazione al convegno sui temi dell’accoglienza e dell’integrazione a palazzo San Giorgio, sede del Comune di Reggio, e nella galleria, in serata, la proiezione con dibattito del film Io capitano.
Io Capitano e Armo nel segno della continuità della testimonianza
«Io sono un sopravvissuto. L’esperienza del film Io Capitano – racconta Mamadou Kouassi – mi ha fatto in qualche modo anche sentire un prescelto. Sento il compito di dare voce ai tanti che non l’hanno mai avuta e a chi, come questi fratelli e queste sorelle qui sepolti, non possono più averla. Il film sta diventando in Africa, come in Europa e anche in America, uno strumento di conoscenza. Non si conosce il dramma della storia che precede l’approdo al porto.
Sento che questo luogo e il documentario su Armo segnano una forte continuità con il film, ispirato a storie vere come la mia, il cui finale avrebbe potuto essere diverso da quello mio e di mio cugino. Avrebbe potuto essere quello tragicamente attuale del naufragio.
Anche questo documentario come il film deve girare per raccontare e testimoniare cosa può accadere quando la Sicilia non viene raggiunta e cosa Reggio Calabria ha fatto per restituire a queste persone almeno una memoria fatta di cura e amore. Grazie e ancora grazie. Anche, e forse soprattutto questo, è un gesto di accoglienza e integrazione».
E dopo il viaggio?
«Il film è ambientato in Africa – racconta ancora Mamadou Kouassi – e dunque non arriva a parlare di cosa accade in Europa dopo l’approdo. Le sue proiezioni sono tuttavia occasioni utili per confrontarsi anche su cosa avviene dopo quell’arrivo in Europa. Cosa trova il giovanissimo Seydou, “Capitano” di una nave di cui diventa custode per difendere e portare a terra sane e salve le vite che a bordo viaggiavano con lui e con il cugino? Un interrogativo che ha una risposta dolorosa quanto il viaggio appena concluso. Arrivato con i suoi sogni in un Europa che sui libri viene raccontata come tempio dei diritti e della civiltà, conoscerà una realtà davvero molto difficile, almeno all’inizio. Il mio inizio è stato davvero durissimo, segnato da una vita per strada, isolato dalla lingua, senza una casa, senza un lavoro.
Uno straniero emarginato come, in fondo, mi ero sentito anche nella mia Africa quando l’avevo attraversata. Un inizio drammatico durato sei lunghissimi anni, in cui come nel deserto, ho conosciuto momenti di grande disperazione. Ed ero già in Europa».
A Rosarno ai tempi bui della rivolta
«Arrivato a Lampedusa nel 2008, dopo essere partito tre anni prima dalla Costa d’Avorio, la prima tappa in Italia fu Roma. Una capitale dove ho vissuto per strada. Alla ricerca di un lavoro, mi sono sposato nelle città dove veniva offerto. Ho girato tanto. Da Torino fino alla Calabria, passando per Foggia, Napoli e anche per Rosarno proprio nell’anno della rivolta, nel 2010. Raccoglievano le arance – ricorda con amarezza Mamadou Kouassi – ma non venivamo pagati. Vivevamo come bestie, senza acqua potabile e senza elettricità. Trattati come animali, emarginati. La nostra protesta era per le condizioni di “non vita” in cui eravamo costretti a stare. Fummo portati via da Rosarno ma senza che per noi le cose migliorassero.
Solo nel 2014 sono riuscito a ottenere il permesso di soggiorno. Mi sono stabilito a Caserta, dove poi ho iniziato a lavorare come mediatore. Adesso ho una compagna e due bellissime figlie ma davvero nulla è stato facile. Ci sono voluti 10 anni prima che io potessi tornare in Africa liberamente. Questo io racconto anche ai miei coetanei in Africa. Che qui in Europa c’è un’altra odissea da affrontare».
L’Odissea nel deserto e in mare e poi quella in Europa
«Li rendo consapevoli e li sensibilizzo. Non solo l’angoscia del distacco dai cari. Non solo il deserto e le prigioni libiche. Anche l’Europa deve crescere in diritti e spero che anche il film Io Capitano possa contribuire a questo fine. Nel mio paese c’è molta corruzione e ci sono poche opportunità per chi non ha mezzi, ma occorre anche iniziare a restare in Africa per iniziare e cambiare lì le cose. Non rifarei viaggio che io ho fatto. Con questo non voglio dire che io sia pentito, voglio però testimoniare con onestà e in verità che viaggi come quello si possono fare una volta sola.
Una volta sola perché si rischia la vita in ogni istante. La seconda non si sarebbe così fortunati. Io ce l’ho fatta e adesso che mi sono integrato, nonostante i primi durissimo anni, posso e devo testimoniare per aiutare chi non sa, chi non conosce, non avendo vissuto l’esperienza di migrante oggi. Desidero aiutare tanto l’Africa quanto l’Europa che rischia di perdere la sua umanità e tutto quanto di bello e positivo ha avuto nella sua storia. Quei valori di Democrazia, che noi avevamo studiato sui libri, e che ci aspettavamo di trovare.
Luoghi come il cimitero di Armo, esperienze come quella di Reggio Calabria, ma anche altre esperienze che negli anni successivi ho conosciuto in Italia, dimostrano che l’accoglienza è possibile e che l’Europa possiede quei valori. Occorre che siano più forti e presenti in ogni quotidianità, ovunque. Occorre che ogni luogo abbia il suo “Capitano” che si prenda a cuore le persone se ne assuma la responsabilità. La conoscenza di queste esperienze e il film Io capitano, sono strumenti di sensibilizzazione per guardare avanti e parlare soprattutto alle nuove generazioni. Dobbiamo imparare dal passato recente. Non abbiamo altra speranza per evitare tragedie come quelle di Cutro e come quelle che hanno preceduto l’arrivo della salme a Reggio Calabria».
«Non lo rifarei ma oggi ho trovato un senso»
Le odissee in Africa e in Europa sono per Mamadou ferite ancora aperte. Ferite che sanguinano ogni volta che rivede il film e ricorda suo cugino, che credeva non sopravvissuto al viaggio verso Tripoli. Ogni volta che ricorda quando la disperazione nel deserto e in prigione era stata più forte della paura di non farcela. Eppure Mamadou con il suo sorriso e la sua gentilezza di animo ha saputo trasformare il suo dolore e la sua fatica in una speranza che può tanto. Forse può tutto se non rimarrà la sola. Una speranza dalla quale è impossibile non essere contagiati.
«Oggi non ripartirei ma non sono pentito di averlo fatto. È difficile – spiega Mamadou Kouassi – da spiegare perché difficile è capire perché io non possa spostarmi liberamente da un continente a un altro, senza rischiare la vita e subendo torture, violenze, stenti in una incalzante e costante situazione di pericolo. Forse se fossi rimasto in Costa d’Avorio sarei riuscito a diventare un professore di lingue e un calciatore, le mie grandi passioni. Forse.
Ma sono partito e sono sopravvissuto. Non sono pentito. In Italia sono diventato padre e posso raccontare la verità, narrare le storie, testimoniare che un’Europa più umana è possibile. Questo è il senso della mia vita e del mio percorso. Questo cimitero calabrese dimostra quanto possa essere grande il cuore dell’Europa. Io voglio credere che anche un’altra Africa sia possibile. Una dalla quale i giovani, come me e mio cugino – conclude Mamadou Kouassi – non debbano riconoscere nella fuga l’unica possibilità di realizzare i propri sogni».