Statale 106, il 25 aprile soffia un vento diverso sulla strada della morte: che il sacrificio di Alessio e di tanti altri non sia vano
Un anno fa l'incidente mortale che ha strappato la vita del giovane trentenne. Un anno dopo, su quella strada nulla è cambiato: serve una nuova liberazione ed uno Stato che non si giri dall'altra parte

Anche oggi è una bella giornata. Anche oggi, come un anno fa, stanotte ha piovuto. Una pioggia leggera, quasi impercettibile, che ha lavato i vetri e cambiato i piani. Un anno fa, quella stessa pioggia aveva annullato una scampagnata e deviato il corso degli eventi. Alessio, che doveva partire per una giornata in campagna, aveva scelto di salire in moto e raggiungere Reggio. Era il 25 aprile 2024. Una data che per l’Italia rappresenta la Festa della Liberazione, ma che per la sua famiglia e per la comunità di Bova Marina ha assunto il peso insopportabile di un giorno spezzato. Da allora, niente è stato più come prima. La primavera ha avuto lo stesso profumo, nessuna pioggia la stessa leggerezza. Quella data è rimasta impressa come una cicatrice che non guarisce.
Il 29 aprile, quattro giorni dopo, Alessio è morto. Aveva trent’anni. E con lui si è fermato qualcosa che non si può spiegare. Una luce. Un respiro. Una traiettoria di futuro interrotta. Da allora, la sua famiglia non ha mai smesso di aspettarlo. La porta è rimasta spalancata sul vuoto, come se bastasse un attimo, un rumore familiare, per rivederlo varcare la soglia con il sorriso di sempre. È una casa che aspetta, un tempo che si è fermato, una presenza che continua ad abitare ogni gesto. Ogni rumore di motore, ogni passo sul selciato, ogni sera che scende, sono attese trattenute tra le pareti. Anche il vento, sulla panchina del lungomare, soffia diverso. Alessio non correva, non esagerava. Amava la sua moto con lo stesso rispetto con cui si ama ciò che ci fa sentire liberi, e quel senso di libertà lo condivideva con discrezione e intensità. Ma sulla Statale 106, questo non basta. Come troppe volte è accaduto, è la strada ad avere l’ultima parola. Ed è una parola che si ripete, sempre uguale, da decenni.
La Statale 106, quella che tutti ormai conoscono come “la strada della morte”, è diventata un simbolo della resa dello Stato di fronte a una carneficina senza fine. Negli ultimi dieci anni sono state centinaia le vite spezzate su quella strada maledetta. È un tracciato che scorre lungo la costa jonica come una linea di confine tra la vita e la morte. E no, non si può dare la colpa sempre e solo alla velocità o alla distrazione. Sarebbe troppo comodo. Troppo facile. Le responsabilità sono più profonde: nella segnaletica inadeguata, nei punti pericolosi mai messi in sicurezza, nei fondi promessi e mai arrivati. Ed anche se si parla della progettazione – sacrosanta – del nuovo tracciato, quello attuale rimane inalterato. Quella della 106 è una media spaventosa, che parla da sé. Ma oltre le statistiche, ci sono le storie. Ci sono i volti, i nomi, gli abbracci. C’è Alessio. Ci sono i funerali affollati, i palloncini bianchi con la scritta “Ciao Ale”, “Ciao Dodò”, e tanti altri; le piccole moto simboliche lanciate in cielo, l’ultimo atto d’amore della donazione degli organi, la raccolta fondi per i randagi, i cortei silenziosi con le fiaccole che hanno attraversato il paese. Segni di una comunità viva, ma anche indignata, stanca, pronta a farsi sentire. Perché non si può più tacere, non si può più aspettare.
E allora il 25 aprile, per molti, ha cambiato significato. Non è solo la memoria della liberazione dal nazifascismo, ma il giorno in cui serve ripensare a una nuova liberazione: dalla morte evitabile, dall’inadeguatezza infrastrutturale, dalla disattenzione politica, dalla cronaca che si limita a registrare senza mai denunciare. Una liberazione dai comunicati di circostanza, dalle promesse che evaporano, dalle frasi fatte che si sentono ad ogni funerale. Perché mentre lo Stato celebra – quest’anno forse troppo in sordina – la libertà dalla piaga furibonda e omicida del nazifascismo conquistata nel 1945, su quella stessa statale continua a consumarsi un’ingiustizia quotidiana, con le famiglie lasciate a ricostruire da sole ciò che non si può ricostruire. E ogni nuova vittima è un’ulteriore condanna al silenzio per chi resta.
Nel nome di Alessio, e di chi come lui non è più tornato a casa, si alza allora un appello civile. È tempo di agire, di mettere in sicurezza l’intero tracciato della Statale 106, di fermare la lunga scia di sangue che ogni anno insanguina l’asfalto. Non si può più accettare l’idea che sia normale morire per una strada che cade a pezzi. Non si può continuare a delegare tutto al caso. Non si può più archiviare ogni lutto come fatalità. Non si può derubricare tutto ad una troppa velocità o disattenzione. Serve una visione, una strategia, una volontà politica vera. Serve il coraggio di chiamare le cose con il loro nome. Serve, soprattutto, la responsabilità di non voltarsi più dall’altra parte.
La porta, intanto, resta aperta. Per chi lo aspetta. Per chi ha ancora bisogno di verità e giustizia. Ma anche per chi ha la responsabilità di decidere. È una soglia che non si chiude, uno spazio che attende un ritorno impossibile. Il tempo della retorica è finito. È tempo di una scelta. E di una nuova, urgente liberazione. Una liberazione concreta, tangibile, fatta di opere, di risposte, di presenza. Nel nome di Alessio, e di tutti quelli che non hanno potuto scegliere.