giovedì,Luglio 17 2025

L’escalation criminale contro le donne è il manifesto di una società malata: serve una rivoluzione che inizi dai banchi e dalle case

I dati parlano chiaro: aumentano le denunce per maltrattamenti in famiglia, reati spia e femminicidi. Ma la risposta alla violenza non può essere solo giudiziaria. Serve un cambiamento culturale profondo, che parta dalle famiglie e dalle scuole, dove troppo spesso l’esempio è il primo a mancare

L’escalation criminale contro le donne è il manifesto di una società malata: serve una rivoluzione che inizi dai banchi e dalle case

Ci sono dati che sconcertano già alla prima lettura. Altri che hanno bisogno di essere analizzati e, forse, interiorizzati. Poi ci sono numeri che parlano di persone e in questo caso il rispetto è l’unica chiave di lettura possibile.

II 45,8% dei femminicidi con vittime straniere sono commessi da autori italiani, solo nel 4% dei casi, 3 vittime in valori assoluti, le vittime di femminicidio italiane sono state uccise da uno straniero. In Italia solo 1′ 11% delle donne che subiscono violenza denuncia l’accaduto, di queste quasi il 40% non parla con nessuno di quello che ha subito, spesso per vergogna o anche perché le situazioni vissute sono ritenute normalità (dati del Ministero degli Interni).

Ho letto questi dati nella relazione annuale dell’osservatorio regionale sulla violenza di genere e ho iniziato a interrogarmi su quale fosse il modo corretto di divulgare questi dati. Dopo un’attenta riflessione ho compreso che, ancora oggi, abbiamo la necessità di trovare un colpevole, un carnefice che sia “diverso” da noi, lontano, straniero. Così ci raccontiamo, complici social, sciacalli politici e anche parte della stampa, che i cattivi vengono da fuori. I dati raccontano e fotografano tutt’altro. Il male è occidentale, italiano, vicino e uguale a noi. E questa, che non è certo la scoperta dell’acqua calda, serve, però, a comprendere che nessuno si può chiamare fuori.

Nessuno è esente, la responsabilità è condivisa ed è di tutti perché se un ragazzo o un uomo uccide una donna esiste una mancanza e un vuoto educativo che non possiamo ignorare. E se in Calabria si segna, addirittura, un più 0,33% rispetto al resto del paese, una valutazione sull’arretratezza culturale va fatta.

È una ferita che continua a sanguinare nel corpo della nostra società. È quella inferta ogni giorno da gesti di violenza, soprusi, silenzi e indifferenza contro le donne. I numeri aumentano, i reati si moltiplicano, le cronache riportano sempre più spesso episodi di femminicidio e maltrattamenti in famiglia. Ma il vero dramma è che, nonostante le campagne, le leggi e i dibattiti, il cambiamento culturale ancora stenta a decollare.

Dietro ogni reato c’è una storia che inizia molto prima del primo schiaffo. Spesso con parole velenose, con il controllo, con l’isolamento. Reati spia che si affacciano come segnali inascoltati. Ed è proprio lì che bisogna agire. La denuncia è fondamentale: è il primo passo verso la libertà e la salvezza. Ma non basta. Perché ogni volta che una bambina vede una madre umiliata e un bambino cresce senza rispetto per la donna, il seme della violenza si annida. Serve una rivoluzione culturale che parta dalle case e arrivi alle aule scolastiche, ai luoghi dove si costruisce il futuro.

Insegnare il rispetto, mostrare l’esempio, parlare apertamente di emozioni, di conflitto e di dignità. Educare al consenso e all’empatia, prima ancora che al codice penale. È questo il vero antidoto alla violenza. E solo quando diventerà patrimonio collettivo, potremo davvero dire di aver cominciato a cambiare.

E l’avvocato Lucia Lipari da componente dell’osservatorio lo ha detto chiaramente: «C’è ancora molto molto da fare perché a livello internazionale persiste un Gap tra donne e uomini. Sotto questo punto di vista in questo settore il gender Gap Index internazionale che viene parametrato ci restituisce l’immagine di un’Italia che si colloca a livello internazionale nel ranking internazionale e indietro rispetto ad altri paesi e soprattutto perde posizioni rispetto ad annualità precedenti in termini di parità di genere di uguaglianza di genere. E ovviamente è innegabile che questo rappresenta un costo sociale addizionale per tutta la società è che frena il progresso sociale e culturale ed economico di tutti noi».

In Calabria questo si vive ancora maggiormente perché, soprattutto nelle zone periferiche, le donne ancora oggi diventano economicamente totalmente dipendenti dall’uomo e, quindi, automaticamente anche questo non si favorisce la fuoriuscita è l’indipendenza, quell’empowerment necessario.

«Occorre sicuramente un lavoro di squadra. La leva è totalmente culturale e ci rendiamo conto di quanto ciascuno deve partecipare a una sfida complessa, che siano gli attori sociali, istituzionali, che sia la stampa stessa. Studi recenti ci restituiscono l’immagine di un giornalismo che presta il fianco alla carnefice stesso, nel senso che dossier, dati statistici ci dicono che vi è uno storytelling sbilanciato dove il carnefice viene rappresentato molto spesso come l’uomo che faceva i biscotti alla donna o comunque l’uomo tradito. Il linguaggio, le parole sono importantissime, si usano dei termini impropri attraverso cui si aggancia la violenza di genere ad un momento estemporaneo ad un raptus che è un termine medico assolutamente avulso dalla reale vita di questa storia».

Così come il “se l’è cercata” che spesso abbiamo commentato, tutto questo ci restituisce un’unica necessita innegabile: occorre un cambio di passo drastico che costringa tutte le realtà educative alla responsabilità di crescere uomini e donne emotivamente funzionali, in grado di accettare un rifiuto e un abbandono, capaci di reagire senza violenza, di usare il confronto, di amare senza esasperare. Di vivere e non morire, di prendersi cura dell’altro e di se stessi senza pretese. Insomma, di ristabilire una “normalità” che non sia quella che stiamo continuando a raccontare perdendo totalmente il contatto con la realtà.

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