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Giorno del Ricordo, la storia del reggino di adozione Giovanni Carlini: «Odiati da un giorno all’altro perché italiani»

Esule dalmata, da sessant’anni a Reggio, ripercorre gli anni duri della persecuzione subita prima di lasciare tutto e arrivare in Italia

Giorno del Ricordo, la storia del reggino di adozione Giovanni Carlini: «Odiati da un giorno all’altro perché italiani»

«Abbiamo vissuto lunghi anni di stenti e di dolore. La nostra colpa: essere italiani. Il nostro orgoglio di esserlo ci ha condannati all’esilio». Passa il tempo ma resta immutata la commozione che coglie Giovanni Carlini quanto racconta l’esilio dalla Dalmazia e i duri anni che la precedettero. Quando ricorda le ingiustizie subite così a lungo per avere scelto di non rinnegare la sua italianità anche dinnanzi alla violenza dei partigiani comunisti di Tito.

Orgogliosamente italiano ed esule dalmata, Giovanni Carlini, ormai da oltre sessant’anni residente a Reggio Calabria, racconta gli anni difficili della persecuzione iniziata già prima della fine della seconda Guerra mondiale. Una persecuzione culminata nell’esilio alla ricerca di libertà.

L’isola dalmata in cui è nato nel 1936 si chiama Lagosta, comune della provincia di Zara fino al 1941 e della provincia di Spalato del Governatorato di Dalmazia fino al 1943, poi passato in mano ai partigiani di Tito. «Un‘isola bellissima e particolare perché al suo interno ci sono il mare e altre isole. Chiunque la scopra se ne innamora. Essere costretto a lasciarla all’età di 14 anni è stato doloroso», così la descrive, ricordandola bene come se il tempo non fosse trascorso. Un ricordo alimentato anche dal quadro appeso nel salotto della sua casa che la raffigura (alle spalle di Giovanni Carlini nella foto). 

La nostalgia

«In Dalmazia sono tornato nel 1979, trent’anni dopo. Ho ritrovato i luoghi della mia infanzia, dove correvo e giocavo. Ho ritrovato il mare che lì avevo imparato ad amare e che a Reggio ho tutti i giorni davanti agli occhi», racconta ancora Giovanni Carlini.

«Noi non serbiamo odio nei confronti di nessuno. Resta per noi sacro l’amore per la patria che mio padre e poi tutti noi abbiamo sempre difeso. Non bisogna odiare ma capire e aiutare chi ha bisogno. Le guerre sono un disastro e non si dimenticano. Mi rivedo nelle persone sfollate in Ucraine. Anche noi lo eravamo nei boschi. Anche io ho conosciuto i bombardamenti, quando eravamo sotto attacco dei tedeschi. Neanche quello si dimentica».

«Prima amici e un attimo dopo persecutori e perseguitati»

«Ci siamo accorti di essere odiati, improvvisamente da un giorno all’altro. Un odio che ancora oggi non mi spiego. Non so se le parole possono spiegare, ma spero che possano. Tito aveva il progetto di riunire tutta la Jugoslavia e le popolazioni slave. Ma in Dalmazia, per esempio, la prevalenza della popolazione era, come noi, di discendenza italiana e non disposta a rinnegarlo. La convivenza che, fino a un attimo prima, era dunque sempre stata pacifica divenne segnata da aspre ostilità e pregiudizio perché gli italiani, secondo i titini comunisti, erano tutti fascisti e dunque nemici. Prima amici e un attimo dopo persecutori e perseguitati. Abbiamo vissuto un periodo terribile e una fame indescrivibile. Pur nel dramma, solo in seguito abbiamo realizzato quanto eravamo stati fortunati. Sulla terraferma la situazione era ancora più tesa e tragica. Mentre noi venivano perseguitati, vivevamo nella fame e nel terrore di essere fucilati da un plotone di esecuzione, lì c’erano le foibe sul cui orlo si arrivava senza neppure sapere perché. Si veniva accusati ingiustamente e si veniva condannati a morte per puro arbitrio, solo perché italiani».

Nazionalismo e pulizia etnica

Orrore e morte in quel tormentato litorale adriatico. Silenziosamente si consumava un massacro, a lungo taciuto, che ebbe i contorni netti e drammatici di una pulizia etnica per mano dell’Armata Popolare di Liberazione della Jugoslavia, spinta da chiare mire espansionistiche di stampo comunista. Cancellati gli esseri umani sull’altare del peggiore dei nazionalismi che innescò un inferno scandito da persecuzioni, annegamenti, deportazioni, omicidi di massa. L’esodo giuliano dalmata istriano e il brutale accanimento delle foibe costituirono gli epiloghi drammatici di questa pulizia.

I plotoni di esecuzione e le foibe

«Solo dopo l’arrivo in Italia, nel 1949, seppi delle foibe e delle uccisioni di massa che tra il 1943 e il 1945 si erano consumate in quelle fosse scavate nel Carso», racconta commosso Giovanni Carlini. Negli infernali inghiottitoi scavati nella regione comune ad Italia, Slovenia e Croazia, e in altre gole in territorio istriano, erano stati gettati migliaia di militari e civili italiani (secondo alcune fonti 5000 secondo altre 11000). Tra loro anche numerosi calabresi. Mentre nelle foibe si uccideva nella sua Dalmazia, Giovanni Carlini e la sua famiglia avevano conosciuto la persecuzione e la privazione di ogni libertà.

Una storia a lungo taciuta. Una persecuzione che nelle foibe ha toccato l’acme più tragico. Ascoltare Giovanni Carlini dimostra come essa sia stata perpetrata anche costringendo persone a sentirsi braccate in patria, a patire stenti, a nutrire paura e terrore e fuggire dal paese di origine.

Il giorno del Ricordo

Nel giorno del Ricordo delle vittime delle foibe, istituito con legge in Italia nel 2004, oggi 10 febbraio (nel 1947 in questa data fu firmato a Parigi anche il Trattato di Pace che definì i confini di quelle terre tra Italia e Jugoslavia), con molto ritardo si recupera la memoria di una tragedia a lungo dimenticata e addirittura negata. La si salva da un oblio in cui è rimasta avvolta per oltre sessant’anni. Si tenta di ricucire uno strappo che ancora sanguina.

Raccontare per non dimenticare ancora

Le testimonianze di Giovanni Carlini e di chi è sopravvissuto e ancora vive per raccontarlo sono sempre molto preziose. Per questo, fino a quando è stato possibile, Giovanni Carlini è stato sempre disponibile a raccontare e condividere la sua esperienza. Ha collaborato con il Comitato 10 febbraio di Reggio Calabria e ha incontrato anche le giovani generazioni nelle scuole. Tutto affinché questa storia fosse conosciuta e mai più dimenticata.

La Dalmazia

Parte del Regno d’Italia dopo la Prima guerra mondiale, nel 1944 la Dalmazia finì sotto controllo dei partigiani di Tito, entrando poi a fare parte della Jugoslavia. Il suo territorio era comune alla comune a Croazia, Montenegro e Bosnia Erzegovina e così fu anche dopo la dissoluzione della stessa Jugoslavia. Nel 1942 oltre la prevalenza degli abitanti della Dalmazia parlava la lingua italiana. «Con l’avanzare delle truppe titine, alla fine della guerra, tutto cambiò e la Dalmazia divenne territorio jugoslavo e profondamente ostile agli italiani», racconta commosso Giovanni Carlini.

Dimenticare il sapore del pane

«Dopo la fine della guerra Tito avanzava e rivendicava i diritti sulla terra e sulle persone che ci vivevano. Mio padre Michele, finanziere, fu costretto ad andare a combattere al fianco i titini contro i tedeschi. Per cinque anni non abbiamo avuto più sue notizie. Io ero rimasto con mia madre Mila, mia sorella Anita e altri due fratelli Claudio e Antonio, molto malato. Ero io il capofamiglia. Non potrò mai dimenticare la fame che abbiamo patito. Mio fratello più piccolo, nato nel 1940 aveva dimenticato persino il pane. Quando nel 1949, giunti a Trieste, mia zia glielo offrì lui non lo accettò perché lo aveva dimenticato. Non c’erano farina e zucchero. Non c’era niente. Solo un pugno di carote la domenica. Per il resto solo verdure selvatiche. La fame e la persecuzione. Si doveva soltanto subire», prosegue Giovanni Carlini.

Pericoloso parlare in italiano

A casa non si parlava mai. Era vietato parlare in Italiano. Solo in croato ma mia madre non lo parlava. Il nostro italiano era un veneto giuliano, un dialetto che azzera le doppie. Ma improvvisamente parlarlo era diventato pericoloso. Una volta un soldato titino mi sentì parlare mi ordinò di fermarmi, sparando. Io riuscì a scappare. A scuola, a Lagosta, era diventato ormai obbligatorio imparare il croato, il russo e l’alfabeto cirillico. In Italia, da adolescente, dovetti ripetere le scuole elementari», racconta con gli occhi lucidi Giovanni Carlini.

L’esilio

«Dopo la guerra, mio padre tornò a casa provato ma determinato a tornare in Italia perché era italiano e mai lo avrebbe rinnegato. Così clandestinamente andò avanti e arrivò a Fiume. Nel 1949 al momento di dover scegliere di quale nazionalità essere, pena l’esilio, scegliemmo l’Italia e lo raggiungemmo. Intanto già eravamo stati costretti a vivere nei boschi e a lasciare la nostra casa, poi saccheggiata. Poi lasciando l’isola, lasciammo tutto. Mentre attraversavamo il confine mia madre, da sola con quattro figli, aveva paura che ci fermassero e che non riuscissimo a raggiungere l’Italia. Viveva nel terrore. Partimmo con una valigia di cartone e arrivammo a Trieste dove fummo accolti da una zia materna. Fu lei a raccontarci delle foibe. Lì vicino c’era quella di Basovizza.

Doline, poi in friulano foibe, dorsali carsiche che raggiungono anche trecento – quattrocento metri di profondità. Legavano due o tre persone con il fil di ferro e sparavano a una sola persona sul ciglio in modo che poi, cadendo, la persona colpita trascinasse in fondo anche le altre ancora vive. Noi eravamo perseguitati, temevamo i plotoni di esecuzione e i lavori forzati, ma di questo orrore sapemmo solo nel 1949 in Italia, da mia zia», racconta ancora Giovanni Carlini.

La vita in Italia

«A Trieste ci ritrovammo in un contesto diverso in cui le persone uscivano e si incontravano. A Lagosta era ormai vietato fare assembramenti, ritenuti occasioni di cospirazioni. Lasciata Trieste, raggiungemmo il campo profughi a Pineta di Roio in provincia dell’Aquila. Lì restammo per due anni. Dopo mio padre ottenne un posto a Tortoreto Lido, in provincia di Teramo dove andammo a vivere in un alloggio popolare, restando fino 1958. Poi fu la volta di Pesaro, dove viveva un’altra zia materna. Qui mio fratello Antonio ci lasciò. Poi io partì per il servizio militare nei granatieri. Nell’Italia ormai repubblicana era ricominciata la vita mia e della mia famiglia. Qui in Italia nacque il mio ultimo fratello, Pierluigi che ha conosciuto solo dopo la Dalmazia dove ora vive con la sua famiglia. Ironia della sorte, sua moglie è di Spalato».

Il mare di Lagosta e di Reggio

«Io entrai nel corpo Forestale dello Stato e la mia prima destinazione fu in Calabria, San Giovanni in Fiore. Seguirono Ciminà e infine Reggio Calabria, dove ancora vivo con mia moglie Clelia e i con i miei figli Michele e Luigi che qui si sono sposati rispettivamente con Aurora e Lucia, regalandomi quattro splendidi nipoti, Clelia, Gianluca, Giovanni e Alessandra. A Reggio Calabria arrivai nel 1963 e qui, ritrovando il mare di Lagosta, un clima bellissimo e la gente accoglienza, ho voluto rimanere».

 

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