Reggio, presidio di solidarietà per Marjan: «Non si può criminalizzare chi avrebbe diritto a essere tutelato» – VIDEO
Questa mattina dinnanzi al tribunale della Libertà al Cedir è stata discussa la richiesta dei domiciliari per la donna iraniana accusata di essere scafista e detenuta nel carcere Panzera. L'avvocato Liberati: «Prioritario che la giovane possa ricongiungersi con il figlio in attesa di provare la sua innocenza nel processo»
Nasce a Reggio Calabria una rete di solidarietà per sostenere Marjan Jamali nella sua battaglia di giustizia e verità.
Questa mattina al Cedir, mentre si discuteva dinnanzi al tribunale della Libertà la sostituzione della misura cautelare, al momento disposta in carcere, con gli arresti domiciliari, alcune realtà collettive del territorio hanno deciso di esserci. Presto si costituiranno in un comitato di supporto ma intanto hanno voluto essere presenti per manifestare solidarietà a Marjan.
«Invece di essere finalmente al sicuro in Italia, si ritrova a doversi difendere da un’accusa di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Si ritrova ad essere accusata di essere responsabile di un traffico di cui è invece merce», dicono. La sostituzione della misura cautelare consentirebbe alla donna iraniana in attesa di giudizio di potersi ricongiungere il figlio di otto anni che ha portato con sé dall’Iran. Il giudice che oggi ha preso in carico l’istanza, si pronuncerà nei prossimi giorni.
Il sit-in di solidarietà
«Sono venuto dalla Sicilia per partecipare a questo presidio che le realtà solidali reggine hanno tenuto per Marjan. Penso che la strada per ottenere verità e giustizia sia tutta in salita nonostante sia evidente l’innocenza di Marjan, che invece sta rischiando una condanna.
Il lavoro da anni svolto da varie reti a livello europeo lo sta purtroppo dimostrando. Ad essere colpiti sono sempre e solo gli anelli deboli della catena del traffico di esseri umani piuttosto che i veri trafficanti che continuano a trarre profitto. Questo va denunciato e questa realtà vanno ristabilite giustizia e verità», così Alfonso Di Stefano, del costituendo comitato “Free Marjan Jamali”
Sotto accusa di essere scafista è anche l’attivista Maysoon Majidi, espostasi contro il regime iraniano e vessata anche dalla polizia morale del paese di provenienza. Detenuta nel carcere di Castrovillari, nei giorni scorsi, purtroppo, le sono stati negati i domiciliari. Per lei è già attiva una rete di solidarietà che entrerà anche in contatto con il costituendo comitato di Reggio Calabria.
«Riteniamo che Marjan sia stata accusata ingiustamente come purtroppo è accaduto anche alla connazionale Maysoon e accade a tantissimi altri migranti. Accuse e detenzioni che non sono altro che la conseguenza di leggi che sostanzialmente criminalizzano chi non ha alcuna responsabilità piuttosto che i veri colpevoli. Siamo stati qui oggi e saremo anche a Locri il prossimo 17 giugno per manifestare vicinanza e solidarietà a Marjan. Non è tollerabile che siano accusati coloro che sono vittime del traffico di esseri umani e di quelle stesse leggi che dovrebbero contrastarlo. Non si può criminalizzare chi invece dovrebbe essere tutelato dalla legge del nostro Paese. Noi ci siamo e ci saremo per lei, per Maysoon e per quanti sono ingiustamente detenuti in questo momento». Così Rosa Alba De Meo del costituendo comitato “Free Marjan Jamali”
L’istanza per gli arresti domiciliari
«Il prossimo 17 giugno – spiega l‘avvocato difensore della giovane madre Giancarlo Liberati – sarà avviato il processo presso il tribunale di Locri. Intanto, però, stiamo tentando nuovamente di chiedere la sostituzione della misura restrittiva per passare dal carcere agli arresti domiciliari. Stamattina presso il tribunale della Libertà di Reggio Calabria ha avuto luogo l’udienza. Integrerò anche oggi stesso la documentazione. Il centro di accoglienza di Camini, dove è attivo un progetto Sai – sistema Accoglienza e Integrazione – ha già dato disponibilità ad accogliere Marjan, che ha pure acconsentito all’uso del braccialetto elettronico, e suo figlio.
Spero vivamente che Marjan abbia giustizia almeno in questo paese, dopo avere già patito abbastanza nel suo. Spero che questa giustizia inizi a compiersi al più presto, intanto con la sostituzione della misura cautelare. Sulla mia istanza, il giudice si pronuncerà nei prossimi giorni. La vicenda processuale non si concluderà presto, dunque creare le condizioni affinché Marjan e suo figlio possano sostenersi a vicenda è fondamentale.
In questo momento convive con il dolore del distacco dal figlio, per vivere con il quale ha affrontato l’odissea della fuga dalla sua famiglia e dal suo paese. Un figlio che comunque vede e sente ma con il quale lei vorrebbe vivere ogni giorno. Abbiamo registrato una grande sensibilità in questo senso. Il legame è preservato. Dunque – spiega ancora l’avvocato Liberati – a pesare è ovviamente l’impossibilità di vivere con lui. Si sente coccolata in carcere a Reggio, ma le manca suo figlio, il cui affidamento temporaneo alla famiglia di Camini è per altro vicino al termine».
Dalla violenza all’ingiustizia: il viaggio di Marjan
Aver conosciuto la violenza tra le mura domestiche in un paese in cui l’omicidio della propria moglie, della propria sorella, della propria parente, di una donna che non sia accondiscendente e sottomessa, non è punito. Non è reato. Aver rischiato di morire per mano del marito violento. Essere scappata con il proprio figlio di otto anni, via mare senza mai averlo visto prima, solo per cercare soprattutto per il piccolo una vita diversa, un futuro di libertà e speranza.
Questa è la storia di Marjan Jamali, 29 anni a luglio, giunta a Roccella Jonica con il suo bambino di otto anni con oltre un centinaio di altri migranti di varie nazionalità, lo scorso ottobre. Una storia drammatica, come tutte quelle di coloro che attraversano il Mediterraneo. Vittime dei trafficanti di esseri umani che lucrano sulla loro disperazione e sul loro stato di bisogno, che pretendono cifre astronomiche per un viaggio pericoloso e senza alcuna garanzia di sopravvivenza.
La storia di Marjan, tuttavia, potrebbe essere ancora più drammatica. Su di lei pende l’accusa di essere una scafista e di avere scientemente (con dolo) favorito l’ingresso di migranti clandestini sul territorio italiano. Per questo è detenuta nel carcere di Reggio Calabria e rischia la condanna.
L’accusa dei tre presunti violentatori
«Un’accusa nata dalla testimonianza di tre soli uomini – spiega ancora l’avvocato Giancarlo Liberati che la difende dallo scorso febbraio – che per altro sono i cittadini iracheni che lei ha denunciato per violenza sessuale e calunnia. Potrebbero aver indicato lei come atto ritorsivo per essersi opposta alle violenze. In questa direzione ha testimoniato anche Babai Amir, che aveva tentato di difendere la donna dagli abusi e che per questo potrebbe anche lui essere finito nel mirino della ritorsione dei tre uomini che poi si sono resi irreperibili. Anche lui è accusato di essere uno scafista.
Stessa testimonianza è stata resa anche dai due uomini egiziani che già sono stati condannati per essere gli scafisti. Circostanze che dovrebbero rendere inattendibili le accuse rivolte a Marjan che può anche provare, con documentazione nominativa, di aver pagato il viaggio suo e di suo figlio versando la somma di 14 mila dollari.
E invece Marjan, non solo è in stato di detenzione ma è anche lontana da suo figlio, affidato in questo momento ad una famiglia di Camini, nella Locride.
Dimostrando il pagamento del suo viaggio, che dunque non sarebbe stato barattato con la collaborazione ma “comprato” come dagli altri migranti spero di riuscire a dimostrare la sua innocenza e la sua completa estraneità ai reati contestati. Dopo la vita tormentata, che ha lasciato rischiando di non sopravvivere, e la pericolosa traversata certamente oggi Marjan dovrebbe essere accolta in una struttura protetta e non in carcere». È quanto dichiara ancora l’avvocato Gianfranco Liberati.
Spesso ricattati ma mai riconosciuto lo stato di necessità
«Voglio sperare che i giudici prenderanno la decisione giusta, con riferimento alla richiesta odierna e poi nel merito durante il processo. Spero che possano farlo nonostante una legge di cui faticosamente stiamo cercando, a colpi di ricorsi fino in Cassazione, di dimostrare l’illegittimità. La condotta materiale aspramente punita con il decreto Piantedosi o post Cutro, e che si concretizza nel favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, può essere costituita dalla guida del mezzo come anche nell’assolvimento di compiti come la distribuzione dell’acqua o del cibo, il mantenimento dell’ordine.
La presunzione fa il resto, configurando che dietro questa attività ci sia stato un profitto diretto o addirittura indiretto. Nei circa 140 casi che ho trattato, date le storie sempre molto assimilabili, mai sono ancora riuscito a vedere applicata la scriminante dello stato di necessità per escludere la punibilità. Eppure spesso i racconti riferiscono di condizioni di costrizione, ricatto, soggezione, insomma nessun dolo ma stato di bisogno e di necessità, tentativi per sopravvivere. Il recente film di Matteo Garrone “Io Capitano” racconta fedelmente questo spaccato drammatico. Dunque occorre lavorare ancora molto. Spero che già da questo processo possa intravedersi una strada per cambiare direzione». Così conclude l’avvocato Giancarlo Liberati.
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