Da Ferruzzano a Casignana. Nella Locride il fascino degli antichi palmenti rupestri

Nascosti tra la fitta vegetazione dell’Aspromonte o in aperta campagna, scavati nella roccia o a ridosso di antiche strade selciate. Sono i palmenti rupestri, enormi vasche usate in tempi lontani per la fermentazione del mosto. In Italia numerosi testimonianze si conservano prevalentemente al Sud, in particolare nella Locride, famosa in antichità per la produzione del vino. La località con il maggior numero di palmenti, in Italia e in Europa, è Ferruzzano, nel cui territorio sono stati rinvenuti circa 160 palmenti risalenti a diverse epoche (come testimoniato dalle incisioni elleniche, bizantine e romane presenti sulle pareti delle vasche). Questi sono stati oggetto di un accurato censimento da parte di Orlando Sculli, palmentologo e instancabile ricercatore e valorizzatore di antiche viti. «La concentrazione più massiccia – sostiene l’esperto – è quella che ricade sulla costa ionica della provincia di Reggio con circa 750 esemplari, tra il comune di Bruzzano e quello di Casignana, in un territorio delimitato a sud dalla fiumara di Bruzzano e a nord dal Bonamico. Esse – spiega Sculli – non erano scavate singolarmente, ma almeno in due entità, con funzioni diverse: nella vasca superiore si calcava l’uva e si facevano fermentare le vinacce, mentre in quella inferiore più piccola si raccoglieva il mosto».

Ad arricchire il patrimonio dei palmenti rupestri già studiati e catalogati dal ricercatore Orlando Sculli, se ne aggiungono altri 24  localizzati e mappati nel comune di Sant’Agata del Bianco, di cui  13  visitabili, che vanno a costituire una sorta di ideale via del vino, di quello che i romani chiamavano «vinum multum et optimus». 

«Lo studio dei palmenti di Ferruzzano – sostiene Sculli – ha evidenziato che essi erano stati scavati solo in aree dove il terreno era sciolto e mai in quello argilloso, e che essi sorgevano a ridosso di antiche strade selciate fino a sessanta anni addietro, di cui rimangono solo dei tratti superstiti».

Di questi preziosi manufatti, molti dei quali sono oggi in stato di abbandono o ancora in attesa di essere portati alla luce, l’Associazione Nazionale Città del Vino se ne è occupata più volte e con diverse iniziative, nella consapevolezza della loro forte valenza storica, antropologica ed economica: raccontano infatti la storia della civiltà contadina e pastorale, illustrano il lavoro e le tecniche di trasformazione dell’uva dall’età protostorica sino ai nostri giorni e contribuiscono alla riscoperta di vitigni di antica origine.

«Nelle aree montane del reggino sopravvivono decine di viti silvestri – rimarca ancora Sculli – per cui è ipotizzabile che in tempi lontanissimi, il vino veniva ricavato proprio dalle viti silvestri, quando esse erano abbondantissime nelle aree lungo i corsi d’acqua».

«Nonostante la loro importanza storico-archeologica, tutto è fermo attorno ai palmenti della Locride e della Calabria tutta. A muoversi sono le ruspe – epiloga il ricercatore reggino – che nella totale indifferenza delle istituzioni sbriciolano migliaia di anni della nostra storia».

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