Giuseppe Verbaro, padre coraggio che denunciò la mafia insegnando ai figli cos’è la libertà

Gli occhi di una bimba non possono raccogliere il senso. Quello che vedono è solo cambiamento, isolamento, vuoto. Quelle che prima c’era, svanisce. Era impossibile per la piccola Angela, di soli nove anni, comprendere ciò che stava accadendo al padre, al suo panificio: un posto pieno di clienti che entrano ed escono, chi impasta il pane, chi mobilita i sacchi di farina. All’improvviso non succede più nulla, il posto si spegne. Arrivano i carabinieri a fare sorveglianza. Angela è la figlia di Giuseppe Verbaro, il panettiere di Reggio Calabria che, nel marzo 1997, aveva denunciato alla magistratura un clan della ‘ndrangheta dedito alle estorsioni. 

E Angela racconta oggi, dalla sua pagina Facebook, l’amarezza che l’aveva accompagnata in quegli anni, l’incomprensione nel vedere un posto svuotato, dove però, erano arrivati tutti i giorni i carabinieri. Un senso di spaesamento che, nella bambina, cresce di giorno in giorno ed è alimentato, come confessa, dalle domande dei compagni di classe: “Angela ma che lavoro fa tuo padre?”. “Mio padre fa il pane” rispondeva. “Ed è un lavoro pericoloso?”. “No – precisava – che non è pericoloso, al panificio è bellissimo, è grandissimo e sicuro”. “E allora perché i carabinieri non lo lasciano mai e sono sempre con lui? Mica tutti quelli che fanno il pane hanno la scorta”. E qui subentrava il silenzio. Un silenzio sciolto delicatamente dalla maestra che suggeriva: “Il papà di Angela ha fatto un gesto molto coraggioso, ci sono persone cattive da cui bisogna proteggerlo”. «Non dissi nulla, continuai a rimanere in silenzio – confessa la giovane – Ma nella mia testa, a 9 anni, tornava sempre quella domanda: “È pericoloso fare il pane a Reggio Calabria?”».

Perché la denuncia, come quella fatta da Verbaro, si trasforma «in un punto di non ritorno». L’uomo aveva cercato di far comprendere la situazione, fatti che però avevano irrimediabilmente compromesso la vita della famiglia, in cui la mamma si era dovuta sostituire al papà. Alla lontananza del cuore, al non riuscire a perdonare quella scelta incomprensibile, si somma poi la lontananza fisica del programma di protezione assegnato al papà. Il dolore però porta alla crescita personale alla comprensione di quelle ragioni negate ad una bimba che aveva visto il forno, in cui giocava coi cuginetti, spegnersi e diventare un luogo di tristezza e la sua famiglia rimanere isolata,.

La verità si svela pur nel suo essere precisa feritoia. Dopo tanta sofferenza, la piccola Angela, oggi donna ha compreso che la denuncia del padre contro la ‘ndrangheta «è stato un atto d’amore soprattutto nei nostri confronti. Ci voleva liberi e ci ha insegnato che anche se la libertà ha un prezzo altissimo, non deve mai esserne messo in discussione il valore e si deve sempre fare quello che è giusto, costi quel che costi». Perché certe scelte pesano e condizionano tutto: «la sua coerenza l’ha pagata fino in fondo ma oggi mi permette di guardarlo con immenso orgoglio, nonostante tutto». E, infine, un ultimo monito «lo Stato ha ancora tanta, ma tanta strada da fare sull’argomento, soprattutto da un punto di vista di coscienza di chi è chiamato ad applicare quella legge cambiata anche grazie alle sue battaglie condotte in solitaria e di cui hanno beneficiato tutti gli altri».

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