Quarant’anni fa la morte di Bruno Caccia, procuratore di Torino ucciso dalla ‘ndrangheta

È della ‘Ndrangheta (ma forse non solo) la mano che ha ucciso l’unico magistrato vittima della mafia al nord. Un delitto che, a distanza di 40 anni, ancora riserva troppe zone d’ombra. È, infatti, ancora incompleta la verità sulla morte del procuratore capo della Repubblica di Torino, Bruno Caccia, ucciso la sera del 26 giugno 1983 sotto la sua abitazione. Era uscito per passeggiare il cane e la sua scorta era a riposo.

Un delitto di cui, nonostante i processi e le sentenze, ancora non sono pienamente venute alla luce tutte le responsabilità.

Le indagini

L’iniziale pista delle Brigate Rosse, in quegli anni ancora caldi e di cui da magistrato si stava occupando, ha lasciato poi spazio a quella mafiosa. La mano fu della ‘ndrangheta, già negli anni Ottanta in forte espansione in Piemonte e al nord. Ma probabilmente non solo la sua.

Con l’avvocato Fabio Repici, Guido, Paola e Cristina, i figli del procuratore cui è intitolato il palazzo di Giustizia torinese, da tempo invocano piena luce su fatti e responsabilità, parlando di una mezza verità finora consegnata dalla magistratura. Pertanto sollecitano l’allargamento dello specchio di indagini anche ai clan catanesi e a Nitto Santapaola, indicando come ipotetico mandante Rosario Pio Cattafi, e come ipotetico esecutore Demetrio “Luciano” Latella. Insomma dietro il delitto Caccia, gli scenari e i coinvolgimenti andrebbero oltre la sola ‘Ndrangheta.

La verità parziale

Uno degli esecutori materiali del delitto fu l’ex panettiere originario di Gioiosa Ionica nel reggino, Rocco Schirripa, arrestato nel 2015 e condannato per questo delitto all’ergastolo nel 2017, con sentenza diventata irrevocabile nel 2020. Trasferitosi dalla Calabria a Torrazza Piemonte, è lui la fonte delle informazioni sulla base delle quali lo scorso anno, la procura generale di Milano ha riaperto le indagini, come da tempo chiesto anche dai figli del procuratore Caccia, Guido, Paola e Cristina.

Intanto nel 1992 era già stato condannato in via definitiva all’ergastolo un presunto boss, Domenico Belfiore, anche lui di Gioiosa Ionica nel reggino, con l’accusa di mandante del delitto Caccia.

Inchieste bollenti e valori irrinunciabili

Integrità, intransigenza, incorruttibilità, determinazione: tutte qualità che Bruno Caccia possedeva. Doti assolutamente necessarie per un magistrato che scruta negli anni bui e difficili del piombo e del terrorismo, senza tralasciare il potere crescente della ‘Ndrangheta anche nella sua città e nella sua regione. Fu infatti la mafia, alla quale con la stessa fermezza non cedette, a ucciderlo.

Una delle indagini che seguiva atteneva alle infiltrazioni nella gestione dei casinò, in particolare quello di Saint Vincent, e alle connesse attività di riciclaggio che interessavano anche il boss catanese Benedetto Santapaola. Questa fu per Caccia un‘inchiesta fatale, una tra le ultime del magistrato prossimo alla pensione. Un altro magistrato indagava nello stesso campo ma ad Aosta, Giovanni Selis, fu vittima di tentato omicidio dinamitardo nel 1982. Ma la pista fu poi abbandonata e forse, invece riserverebbe ancora elementi utili.

Anche il collaboratore di giustizia, che ha puntato il dito contro il calabrese Belfiore, è catanese ed è Francesco (detto Ciccio) Miano, inviato da un funzionario del Sisde nel carcere di Torino per raccogliere le confidenze di Domenico Belfiore. Confidenze concretizzatesi nella dichiarazione di paternità del delitto da parte di Belfiore e che poi lo stesso Miano riferì nel 1984 agli inquirenti a Milano. Qui il procuratore Francesco Di Maggio è il titolare delle indagini sul delitto Caccia. Olindo Canali è tra i suoi uditori giudiziari.

In questo quadro si infittisce il mistero. Una verità parziale, un’inchiesta incompleta. Necessario indagare ancora e andare oltre quanto già accertato. È questa la posizione dei figli del procuratore ucciso.

26 giugno 1983

È una sera di giugno, l’ultima di Bruno Caccia. Alla scorta è concesso un giorno di quel riposo che fa rima con una passeggiata semplice, con il cane al seguito, sotto casa, prima di andare a dormire. È quella la sera in cui un commando lo sorprende. Da procuratore capo di Torino indaga bene e a fondo e deve essere “fermato”. Questa sarebbe stata una ragione sufficiente per le brigate rosse per freddarlo, nella capitale piemontese, il 26 giugno 1983, con 14 colpi di pistola.

E infatti questa fu la prima pista, poi abbandonata. Quell’intrasigenza era propria di Bruno Caccia e dunque anche la ‘ndrangheta aveva concluso che «non si lascia avvicinare». Lo aveva riferito Domenico Belfiore, il calabrese tra gli organizzatori del delitto del giudice piemontese mentre l’espansione della ‘ndrangheta al nord era contesa tra calabresi e siciliani, o meglio catanesi.

L’espansione della ‘Ndrangheta al nord

Mentre la colonizzazione del potere mafioso, seppur contesa, è in atto, il procuratore Bruno Caccia non si gira dall’altra parte, non si fa distrarre, ed indaga sui temi caldi del momento storico. Temi scottanti e anche latenti. Indaga sulle brigate rosse alle quali qualcuno cerca di attribuire la mano armata per svilire il ruolo del crimine mafioso, indaga anche sui condizionamenti in crescita esponenziale della ‘ndrangheta.

Eppure le prime inchieste in Piemonte vennero condotte nel 1984 e nel 1994, quest’ultima poi sfociata nello scioglimento per mafia del comune di Bardonecchia, in provincia di Torino, nel 1995. È il primo comune del Nord ad essere stato sciolto per infiltrazioni a soli quattro anni di vigenza della normativa (1991).

Ma siamo già oltre trent’anni dopo l’arrivo in Piemonte di Rocco Lo Presti, organico della ndrina Mazzaferro di Marina di Gioiosa Jonica.


Infine nel 2011 vengono eseguiti 150 arresti, nell’ambito dell’inchiesta Minotauro condotta dalla Procura di Torino guidata, fino a dicembre 2013, da Giancarlo Caselli ed incentrata sulla presenza, nel Torinese, dei cosiddetti locali, le dieci articolazioni della ‘ndrangheta, referenti delle famiglie calabresi. Le condanne comminate nel 2013, alla fine del secondo grado di giudizi, sono state cinquanta.

Il ricordo del presidente Mattarella

Bruno Caccia era noto Nato a Cuneo nel 1917. Aveva finito la scuola alla Spezia e si era laureato ad Asti per poi operare presso la Procura di Torino e Asti. Nel 1980 era poi tornato a guidare la procura della capitale piemontese. È stato ricordato, nel giorno del quarantennale del delitto, dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella come «uomo rigoroso e tenace che ha pagato con la vita il costante impegno nell’azione di contrasto ai fenomeni criminali per l’affermazione della legalità».

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