«Non voglio diventare come lei. Mamma grida, piange ma non va mai via. Non lo denuncia. E lui continua a picchiarla ogni giorno. Io non so cosa voglio fare da grande ma so che non voglio essere come lei. Lei che piange e sta zitta mentre picchia anche me solo perché io, invece, ho deciso di dire basta».
La chiamerò Ginevra. Ha solo 16 anni. E non so ancora perché ma ha deciso di condividere con me il suo disagio intriso di dolore ma lo ha fatto e senza saperlo mi ha fatto un dono. Mi ha dato la possibilità di guardare il presente con gli occhi rivolti al futuro. Sono centinaia le adolescenti, future donne, che ogni giorno tra le mura domestiche imparano a diventare le vittime di domani. Ecco, qui si è aperto un varco mostruoso.
Sono stata costretta a confrontarmi, da donna prima e da professionista poi, con la responsabilità che abbiamo oggi. Siamo l’esempio, lo specchio di una generazione che sta crescendo a pane e violenza. Siamo quelle che non devono lottare più per la parità dei diritti ma per sopravvivere all’aguzzino di turno che ci ammalia con parole di un amore malato. E in alcuni casi, come per Giulia, con subdoli ricatti psicologici che incatenano.
La chiave è tutta li. La concezione distorta che si è consolidata nel tempo di un amore che tollera un insulto piuttosto che uno schiaffo. E allora bisogna ripartire da qui. Aiutare le donne a uscire da quella spirale di odio e violenza. Non lasciarle sole e insegnare agli adolescenti che amare è un’altra cosa.
A confermare la storia e la percezione del dolore di Ginevra è la cronaca brutale che, per l’ennesima volta siamo stati costretti a raccontare. Due ragazzine di Seminara abusate, violentate e distrutte proprio da chi diceva di amarle e avrebbe dovuto proteggerle. Sono passati solo pochi anni dai fatti di Melito, solo per rimanere alle nostre latitudini. Quel branco che aveva preso di mira una ragazzina di 13 anni è passato dal giudizio. Ma condanne e sentenze non cureranno le cicatrici lasciate in quella che, all’epoca dei fatti, era poco più di una bambina.
La brutalità raccontata oggi non è molto diversa ma attendiamo la ricostruzione dei fatti per comprendere cosa abbia portato 4 ragazzi ad abusare di due ragazzine in gruppo. Ma se solo ampliassimo di poco la nostra analisi, solo quest’anno registra la brutalità dei fatti di Caivano e Palermo. E Giulia, che altro bisogna aggiungere sulla fine annunciata di una giovane donna che sognava solo realizzare un traguardo per poi inziare la sua vita da adulta. Un sogno che disturbava “quel baravo ragazzo” che le faceva i biscotti mentre si informava su come scappare dopo il delitto. È tutto rovinosamente ripetitivo. La storia non insegna nulla.
Una storia che si ripete in modo inquietante. Ragazzi, giovani uomini e giovani donne, in realtà emotivamente bambini, ripropongono copioni degni di un film horror e non di un set a luci rosse come invece vorrebbe la loro fantasia deviata. E la Calabria si piazza in vetta a una macabra classifica. Una terra che continua a riproporre femminicidi e violenza. Tra i primi in Italia a usare violenza su donne che, ancora oggi, troppo spesso subiscono e non denunciano. E le motivazioni che emergono sono sempre le stesse: paura di rimanere vittime del loro aguzzino dopo la denuncia o, peggio ancora, di non farcela economicamente a sopravvivere.
Dunque, siamo ancora qui, a celebrare per l’ennesimo anno la giornata contro la violenza sulle donne. Siamo qui a raccontare, fare convegni, manifestare e proporre quando, invece, dovremmo da adulti e da professionisti interrogarci in silenzio su cosa stiamo sbagliando. Giudichiamo ragazzi che hanno avuto solo la colpa di avere dei modelli totalmente sballati. Privi di umanità ed emotivamente aridi. La gestione dei sentimenti, le relazioni con l’altro e il semplice rapporto con il “diverso” è diventato un ostacolo. Aggressività, violenza, urla e prevaricazione.
È questo che insegniamo con l’esempio quotidiano. E sia chiaro: siamo tutti colpevoli. Nessuno escluso perché le cicatrici di ogni ragazzina, donna o peggio ancora bambina è colpa di chi non si è fermato ad asciugare una lacrima. È colpa di chi ha preferito l’indifferenza al dolore piuttosto che l’ascolto e l’aiuto. È colpa di chi, privilegiato da un ambiente di confort ha ignorato chi ha avuto come unica colpa quella di nascere in una casa intrisa d’odio.
Siamo in quella fase dove è facile sentire nel testo di una canzone, canticchiata banalmente in classe, una frase del tipo “io ti ammazzo solo perché parli con lei”. Un modo di normalizzare e divulgare un messaggio di odio e violenza totalmente gratuita. La diffusione di un messaggio distorto che entra nelle orecchie dei ragazzi confermando che per stare insieme, in un rapporto di coppia, si debba usare violenza. Ma questo è solo uno dei tanti esempi di come la comunicazione e i social abbiano totalmente compromesso la realtà restituendo un modo totalmente distorto di vivere la sessualità e la relazione.
Io a Ginevra ho detto grazie perché senza di lei non mi sarei mai dovuta confrontare con una gigantesca verità: la sua sofferenza è colpa mia, è colpa nostra che da adulti non abbiamo saputo difenderla da chi l’ha messa al mondo. Ginevra oggi sa che può denunciare. Sa che non deve avere paura perché non è sola. Sua mamma forse non avrà avuto il coraggio ma lei si. E domani potrà guardarsi allo specchio fiera di essere riuscita a dire basta interrompendo la spirale di violenza e diventando quella luce che squarcia le tenebre di un mondo che la voleva zitta, immobile e succube.
Giulia è la centesima vittima di un anno che non si è ancora conclusa. Lo stesso giorno, insieme a lei, è stata uccisa brutalmente, sempre a Seminara, la dottoressa Francesca Romeo. Un’altra donna morta e finita in un macabro elenco a cui presto nessuno baderà più. Solo l’ennesimo fatto di cronaca che la prossima notizia fagociterà alla velocità della luce per poi gettarlo in un cono d’ombra dove la memoria non esiste. Dove cento donne morte non fanno più notizia anche se la prossima potrebbe essere accanto a te. Potresti essere tu.