domenica,Aprile 28 2024

La strage di Nassiriya e la verità raccontata nelle pagine del libro del generale Burgio

«Una strage annunciata» secondo chi ha vissuto quei terribili momenti e che vede come priorità in ogni missione quella di «riportare i soldiate a casa. Ma li qualcosa non ha funzionato»

La strage di Nassiriya e la verità raccontata nelle pagine del libro del generale Burgio

Nel 2011 al PRT (Provincial Reconstruction Team) di Herat fu fatto entrare normalmente un camion, l’auto spurgo. Quella volta era pieno di esplosivo. È entrato e sono morti 32 soldati. Erano nepalesi quindi in italiano non se ne è parlato. Però il PRT era italiano. Questo vuol dire che quella installazione non aveva evidentemente la sicurezza. Non era stato fatto tesoro dell’esperienza di Nassiriya. Un attentato annunciato che poteva essere evitato.
Cambiare l’approccio alla gestione delle missioni militari internazionali per evitare episodi dolorosi come la strage di Nassiriya. Il Comandante Provinciale dei Carabinieri di Reggio Calabria, Gen. B. Cesario Totaro, ha aperto le porte alla presentazione del libro “Nassiriyah” del Gen. C.A. Carmelo Burgio su iniziativa dell’università Mediterranea. Il Generale Burgio racconta la sua verità sull’attentato. Proprio in quei giorni fatali l’autore del libro, appena giunto in Iraq, era in procinto di assumere il comando della missione al posto del suo predecessore che terminava il mandato.

Il libro

“Nassiriyah” ricostruisce l’attacco terroristico del 12 novembre 2003, i mesi immediatamente successivi, dedicati alla ricostruzione del reparto e la lunga vicenda giudiziaria, volta a individuare le responsabilità.
«Nassiryja è un attentato dovuto al fatto che la base non era efficiente, che le difese erano state oggettivamente realizzate in maniera errata. Non lo dico io. Lo dice la sentenza della Corte di Cassazione. Avremmo potuto evitare quello che è successo. E ciò nonostante a Herat abbiamo fatto la stessa cosa. L’unica cosa è che sono morti 32 nepalesi quindi in Italia non ha parlato nessuno». Una testimonianza diretta e personale di un evento drammatico che ha segnato la storia dell’Italia e dell’Arma dei Carabinieri e che guarda al futuro in modo critico.

«Come italiani ci siamo inventati un concetto assolutamente errato. Quello della missione di pace. La missione di pace fa edulcorare tutto ci fa sembrare che noi stiamo lì a fare i buoni. La visione non di pace se devi imporla. Quando tu imponi qualcosa a qualcuno questo qualcuno può darsi che non è d’accordo a farselo imporre soprattutto se appartiene un popolo come quell’iracheno che ha avuto qualche decina di migliaia di morti per un regime caduto che a qualcuno andava bene. Forse se andando in Iraq si fosse pensato che un nemico che non ha artiglieria, non ha aerei, non ha carrarmati se ti vuole fare male usa le autobomba e che queste autobombe le può usare anche contro noi italiani, se l’avessimo pensato forse ci saremmo organizzati. Si sarebbero organizzati i responsabili per non far succedere quello che è successo».

Per il generale ci sono colpe originarie perché «noi siamo quelli che vanno a fare la missione di pace e ci veste di buonismo. A quel punto noi siamo i buoni quindi l’unico che ci può far male è solamente un grande delinquente cattivo e vile. Ora io considero terroristi quelli che hanno fatto l’attentato a Nassiriya perché hanno accettato deliberatamente di ammazzare anche dei civili. Ma fino a quando volevano ammazzare noi italiani io onestamente non ci vedo niente di vile e niente di terrorista. È solo un modo per attaccare quelli che mi hanno invaso il paese perché noi da una parte di che eravamo sempre visti come degli invasori».

Gli interrogativi

Tanti gli interrogativi emersi dal racconto del Generale. In primis se «questo buonismo conviene. Se conviene riempire le pagine di giornali e trasmissioni televisive di belle parole. E montiamo l’intera missione di buonismo, distribuzione di medicine e il bambino da tenere in braccio. Si fa anche quello. Io sono sempre stato attento che non venissero commessi atti di disumanità. E in tante missioni che ho fatto non ho mai avuto personale alle mie dipendenze o io stesso a riportarci a casa delle belle denunce per violazione di diritti. Sono sempre stato attentissimo a questo però questo non vuol dire che non mi debbo parare e non mi debbo difendere da ogni minaccia. Il comandante oltre a conseguire l’obiettivo ha un dovere, quello di riportare a casa gli uomini.

Anche se noi siamo statali e non potremmo fare il secondo lavoro ogni nostro soldato ha un secondo lavoro a casa. Ogni soldato è padre, madre, oggi figlia o figlio, fidanzato. Ha un secondo lavoro e il comandante deve rispettare il secondo lavoro di questa gente e lo si rispetta massimizzando l’attenzione ai rischi cioè non affidando mai la salute e la salvezza del proprio personale al buon cuore di quelli che si pretende che ci vogliono tutti bene. Non esiste, lo dice la filosofia, l’assoluto. L’unica cosa assoluta in filosofia è che tutto è relativo. Ci sarà sempre qualcuno che ti vuole male».

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