Addio Ettore Mo, le sue parole ci hanno raccontato il mondo «con strazio e tenerezza»


Mite e sorridente, umile come solo i “grandi” sanno essere. Per Ettore Mo il viaggio ha cambiato registro. Esso continuerà ancora ma nei viaggi che altri continueranno a compiere grazie ai racconti che ci ha lasciato, ai suoi articoli dettagliati, alle sue cronache puntuali, ai suoi libri immersi dentro la Storia e, al contempo, fedeli ai fatti, pregni di sguardi e di emozioni. Ettore Mo è spento stamani all’età di 91 anni.

Per il grande inviato di guerra del Corriere della Sera, in Afghanistan, Iran e Jugoslavia, con il suo fare fermo ma gentile radicalmente contro il giornalismo embedded, il mondo ha rappresentato la lente caleidoscopica attraverso la quale ha guardato la vita e l’umanità, raccontandole. Ogni viaggio, infinite storie da raccontare.

“Sporche guerre”, “Gulag e altri inferni”, “Kabul”, “I dimenticati”, “Treni e Fiumi. Lungo le grandi strade d’acqua del pianeta”. Poi ancora le emozioni, le avventure e una straordinaria umanità ne “Ma nemmeno Malinconia. Storia di una vita randagia”, il racconto autobiografico di un grande reporter.

La passione per il giornalismo lo aveva colto in età avanzata. Lo aveva trovato, tra i rivoli di una vita avventurosa, e non lo ha più lasciato. Dopo gli anni dell’infanzia sulle montagne tra Valsesia e Val d’Ossola, iniziava la sua erranza. I soggiorni all’estero negli anni universitari, i tanti mestieri e poi gli uffici londinesi del Corriere della Sera.

A Reggio per presentare Kabul e Ma nemmeno malinconia

A Reggio Calabria, il grande inviato di guerra, è stato ospite del Rhegium Julii presieduto dal lungimirante e indimenticato mecenate che è stato Giuseppe Casile. In occasione dei suoi approdi in riva allo Stretto, portò anche qui il suo sguardo dentro la storia. Nel 2002 le cronache di “Kabul” e nel 2008 la sua vita randagia con “Ma nemmeno malinconia”.

«È il Paese, l’Afghanistan, che ho frequentato più di tutti gli altri al mondo nella mia vita professionale ed è perciò naturale che abbia un posto tutto speciale, nel mio cuore e nei miei ricordi. Ci andai la prima volta nell’estate del 79, sei mesi prima che fosse invaso dall’Armata Rossa. Il fatto che potessi visitarlo solo clandestinamente, aggregandomi ai mujaheddin in interminabili, estenuanti escursioni per valli e montagne ha conferito al nostro rapporto qualcosa di speciale, una sorta di affettuosa e al tempo stesso eroica complicità». Così aveva scritto del “suo” Afghanistan in Kabul.

Una vita randagia

Dopo aver letto il mondo visto attraverso le sue parole, nelle pagine di “Ma nemmeno malinconia. Storia di una vita randagia” abbiamo letto di lui. Un lungo viaggio raccontato attraverso una serie di pubblicazioni dedicate a diverse aree del mondo. Poi l’approdo del grande corrispondente di guerra all’estero al diario autobiografico.

Un flusso di memoria con cui aveva ripercorso la vita avventurosa del giornalista dedito alla realtà e ai fatti da riportare con precisione e meticolosità. Un ritratto che non necessita di colorarsi di incanto per suscitare emozioni e coinvolgere chi legge. È la curiosità che si addice a chi è alla ricerca di particolari inediti capaci di raccontare aspetti nascosti della realtà e della storia.

La sua erranza dentro la storia

Inviato speciale del Corriere della Sera, Ettore Mo varcava la porta degli uffici londinesi di questa storico giornale dopo avere attraversato il mondo e avere vissuto le esperienze lavorative e umane più diverse. Una straordinaria capacità di fotografare persone, storie, eventi e di consegnarli con talento e umanità attraverso articoli e reportage e infine anche con un racconto autobiografico.

In questo volume oggetto della sua fotografia era la sua storia personale, uomini e donne con cui aveva condiviso momenti di vita, luoghi che aveva descritto non solo per spalancare una finestra sul mondo ma anche, e soprattutto, per aprire un varco dentro sé stesso e accogliere chi avesse voluto conoscere lui, questa volta. “Una vita randagia”, la definiva, alla quale tuttavia ha guardato con una serenità, non dolente calma ma viva compiutezza e lontananza da qualsivoglia turbamento.

Ettore Mo cameriere a Parigi, bibliotecario ad Amburgo, infermiere a Londra, insegnante di francese a Madrid, cantante, steward. Una molteplicità di identità che si sono intrecciate attorno ad una molteplicità di luoghi per tratteggiare un destino compiutosi passo dopo passo, senza mai ripiegarsi su sé stesso. Un destino che, a un tratto, aveva deciso di racchiudere nelle parole. «Ogni sillaba, ogni vocale dev’essere accarezzata, con strazio e tenerezza», aveva scritto.

Come aprire un baule per vedere cosa ci sia dentro e trovare solo ciò che si è stati in grado di mettere lungo il cammino, niente di più. Scoprire che la pienezza di un cammino non risiede nella forza di negarsi il rimpianto ma nel coraggio di guardare nuovamente avanti, dopo avere nostalgicamente volto lo sguardo indietro.

La sua memoria dentro la storia

In una delle pagine più vibranti del suo racconto egli coniugava il ricordo paterno con la memoria storica comune richiamando il dramma della miniera di carbone di Marcinelle, in Belgio, esplosa nel 1956 causando la morte di centinaia di persone, tra cui molti emigrati italiani, come in un certo senso è stato anche lui.

L’ultimo racconto con cui si chiude il diario è ambientato a Londra, capolinea della sua avventura e inizio del viaggio decisivo. Qui il sonno lo aveva conquistato. Doveva essere stato l’effetto della guinness o del whisky Jameson ad essere dirompente, perchè, come lui stesso ha raccontato, sono sempre le sue gocce ad inebriare le notti degli irlandesi dell’Ulster. Notti che diventavano insonni in attesa che Sheila, la regina del faro, le sfiorasse con il suo fascino. Tuttavia egli si sarebbe svegliato perché a chiamarlo sarebbe stato un destino da grande reporter. Un destino che ha compiuto, arricchendo il mondo.    

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