STILI & TENDENZE | Tarantella e danze tradizionali anche come terapia

«Un corpo è un corpo tra altri corpi» diceva Marian Chace. E ne è convinta Agata Scopelliti quando parla dell’importanza e dei benefici delle danze tradizionali, utili anche a livello terapeutico. Danzaterapeuta espressivo-relazionale e insegnante da oltre 30 anni, la Scopelliti promuove il progetto “Lo Stretto che balla” per il recupero delle antiche tradizioni e il culto della memoria dei balli che hanno scandito la vita di intere comunità di tutto il Sud, Calabria compresa.

Danze tradizionali per passione e necessità

Agata Scopelliti nasce “ballando” come dice lei stessa, a Cataforio, nella vallata del Sant’Agata dove maggiormente, insieme a Mosorrofa e Cardeto, si sono conservate le antiche tradizioni coreutiche e musicali. A 16 anni si lega a “U Stegg!”, residenza del mese di agosto a Cataforio, e inizia la sua formazione. Dopo aver studiato lingue, si trasferisce a Milano dove comincia, su richiesta degli amici, a tenere lezioni di danze tradizionali. Così inizia il suo percorso personale che prosegue a Roma, dove si unisce al collettivo Sud in ballo e insieme a loro e al Cip Alessandrino crea la scuola popolare delle arti intitolata a Violeta Parra. La pandemia la blocca e torna in Calabria e qui inizia il percorso come danzaterapeuta. Grande passione, dunque, ma anche necessità di portare avanti una cultura tramandata per generazioni e ormai pressochè scomparsa.

«Fino agli anni ’40, ’50 del Novecento le danze tradizionali scandivano tutti i momenti di socialità di una comunità. Nascono all’interno degli ambiti agropastorali, matrice comune a tutte le danze del centro-sud Italia che a partire dai grandi fenomeni di emigrazione ha cominciato a sgretolarsi. C’è stata anche una grossa campagna di denigrazione perché questa cultura veniva considerata “minore”, legata ai contadini villani e cafoni. Poi si è assistito ad una sorta di sdoganamento fino ad arrivare a delle situazioni che hanno distrutto anche quel poco che rimane» spiega la Scopelliti riferendosi «alla musica e alle danze spacciate oggi sui palchi per tradizione, già un ossimoro nei termini perché la tradizione è in mezzo alla gente, non c’è un elemento di separazione». Non rappresentano, prosegue, «il linguaggio della tradizione ma un linguaggio pop con influenze tradizionali – sottolineando la necessità – non di muovere una critica ma di fare ordine nella grande confusione che si è creata negli ultimi vent’anni in cui si vedono musica e danze che hanno molto di caraibico e poco di calabrese».

Si fa presto a dire tarantella…

Danze tradizionali che nascono sotto il palco e non sopra e che si mescolano e influenzano tanto da non poter fare, con riferimento al nostro territorio ad esempio, un discorso regionale. «Come dice sempre Ettore Castagna, famoso antropologo ed etnomusicologo “la danza è il dialetto dei corpi”, questo vuol dire che se nell’Aspromonte è diffuso il Sona a ballu o tarantella ci riferiamo allo stile legato alla valle del Sant’Agata che si differenzia da quello della Locride o dei paesi della Piana di Gioia tauro. Per non parlare poi delle altre province, dalle Serre fino al Pollino pur restando in Calabria troviamo un linguaggio completamente differente, pur avendo la stessa matrice» spiega la Scopelliti.

Si fa presto dunque a dire tarantella, dentro c’è un intero mondo, con le sue peculiarità territoriali. «Già – continua – se pensiamo a quando è stato introdotto per la prima volta il termine tarantella, verso il 1500, le danze popolari, risalenti addirittura al periodo magnogreco, una volta entrate a corte sono state ingentilite e modificate, quindi abbiamo tante tarantelle, termine che si può riferire a tutte le danze tradizionali del sud Italia, come la tarantella cilentana, quella montanara del Gargano, la tarantella di Montemarano, e così via, e poi quella della vallata del Sant’Agata, “Sona a ballu”, accompagnata dagli strumenti della tradizione, sempre in coppia, zampogna e tamburello o organetto due bassi che nel tempo ha sostituito la zampogna, e tamburello».

La danzaterapia

Alla danzaterapia Agata Scopelliti ci è arrivata osservando le “rose” (cioè lo spazio circolare entro cui la danza viene eseguita) nostre ma anche quelle degli altri balli della tradizione. «Notavo quanto la gente stesse bene, sembrava rinata, si leggeva nei corpi, nei volti, così ho cominciato a farmi delle domande e mentre cercavo le risposte mi sono avvicinata alla danzaterapia. Nello specifico ho studiato la metodologia espressivo relazionale ideata dallo psichiatra Vincenzo Bellìa che vive e lavora a Catania e che ha esportato questo metodo anche in Libano, Egitto e Giordania oltre che in Nord Europa» conferma infatti la Scopelliti.

Ma cos’è la danzaterapia? «È una disciplina rivolta a chi ha voglia di prendersi cura di sé attraverso un lavoro psicofisico e nasce intorno al 1940 negli Stati Uniti ad opera di Marian Chace che era una psicoterapeuta ma anche insegnante di danza. La Chace – spiega la Scopelliti – iniziò a curare i traumi dei soldati reduci dalla Seconda guerra mondiale e accorgendosi di quanto la danza facesse bene ai ragazzi che la seguivano ebbe l’intuizione di unire la psicoterapia e la danza dando l’avvio a quella che è la danza movimento terapia, oggi integrata nelle terapie per il trattamento di molte patologie, sia per psicopatologie che per disturbi e dipendenze, alimentari ma anche ludopatia. Io in questo periodo, sia all’AchāteS a Cataforio che presso la clinica olistica Kama sto lavorando in particolar modo con persone che hanno disturbi legati sia al neurosviluppo che alle malattie neurodegenerative».

Ma attenzione, tutte le danze fanno bene, «però non tutte sono terapeutiche tout court. Certamente – spiega ancora Agata Scopelliti – vi rientrano le danze tradizionali a 360 gradi, non solo del Sud Italia ma anche di altri paesi, come le danze rituali africane o le afrobrasiliane degli Orishà, perché hanno in comune questa matrice comunitaria e relazionale del gruppo, e anche, se pensiamo al nostro Sona a ballu ad esempio, il conduttore, come lo chiamiamo in danzaterapia, “u mastru i ballu”, che gestisce e si assicura che tutti stiano bene facendo quella determinata cosa. Dunque, sono due mondi che si integrano perfettamente, l’uno può essere un supporto per l’altro».

Lo Stretto che balla

Da tutto ciò nasce anche il progetto Lo Stretto che balla, dedicato alle danze di tradizione orale del centro sud Italia, che raggruppa una serie di piccole realtà del territorio, come gli omonimi laboratori alla stazione FS di Santa Caterina e a Melito, l’Accademia del tempo libero dove c’è attivo un corso di danze etniche internazionali e il gruppo Balfolk Reggio.

Il laboratorio di danze tradizionali Lo Stretto che balla con la direzione della Scopelliti, che apre i battenti stasera 14 settembre, nasce dalla collaborazione tra l’associazione Incontriamoci Sempre e il collettivo Sud in Ballo di Roma e mira all’insegnamento di danze tra cui Pizzica pizzica, Tammurriata, Spallata di schiavi d’Abruzzo, Tarantella di Montemarano e ovviamente Sonu a Ballu dell’Aspromonte meridionale, ma prevede anche approfondimenti mensili a cura di insegnanti e testimoni diretti della cultura etnocoreutica e musicale di appartenenza e un laboratorio ad hoc di tamburo a cornice condotto da Mario D’Amico.

«C’è molta curiosità e un buon riscontro – illustra la Scopelliti – con partecipanti di varia età e provenienza perchè la formula non è quella del corso autoreferenziale ma del laboratorio culturale, con approfondimenti e spazi dedicati ad esperti delle altre regioni, da Franca Tarantino per le tradizioni del Salento e la pizzica pizzica, a Maria del Porto per le tradizioni legate all’area vesuviana, a Nicoletta Grande per la tarantella di Montemarano, ad Alessandro Calabrese con il Saltarello di Amatrice e tanti altri, proprio perché vogliamo dare spazio ad altre voci al fine di favorire il confronto e l’aspetto teorico, aggiungendo elementi che arricchiscono il lavoro mentre si mette in gioco il corpo». Il fine, conclude, è quello di creare sinergie, informazione, cultura, «soprattutto nei confronti delle nuove generazioni cui attecchisce il messaggio sbagliato di tradizioni consumate sui palchi della taranta e dei vari festival, inserite nella concezione dello spendi, mangia, consuma».

Condividi
Impostazioni privacy
Privacy e termini di Google