Peste suina, cacciatori sul piede di guerra: «Garanzie o non saremo complici di un disastro annunciato»

Tornano a far sentire la loro voce i cacciatori dell’associazione “Pro cinghiale Calabria” e ancora una volta per spronare la Regione a “darsi una mossa” circa le attività messe in campo per contrastare la peste suina, avanzando alcune proposte e ribadendo la volontà di contribuire, però a determinate condizioni. Dopo aver incontrato, lo scorso 23 ottobre, l’assessore regionale all’Agricoltura Gianluca Gallo e il consigliere Giuseppe Mattiani, ai quali avevano spiegato «quanto sbagliato sia l’approccio dato all’emergenza Psa e soprattutto per contrastare il numero di cinghiali che in alcune zone è fuori controllo», i cacciatori hanno deciso che «è arrivato il momento di dare un’accelerata alla risoluzione dei problemi, confidando nella stessa voglia che la Regione ha dimostrato di avere».

Secondo quanto affermato dal presidente della Pro cinghiale Rocco Esposito, la soluzione risiede in due passaggi fondamentali: «La prima è la riduzione delle zone rosse che permetterebbe il normale svolgimento dell’attività venatoria e quindi l’abbattimento di numerosi cinghiali. Ricordiamo che in Campania è stata effettuata tale riduzione dopo soli 3 mesi dall’istituzione della zona rossa, visto che non sono stati ritrovati animali morti o infetti. Nella nostra provincia, in gran parte dei comuni sotto restrizione, non sono mai stati ritrovati casi di Psa, ma solo la presenza massiccia di cinghiali.
Nelle zone 2 e 3, sono mesi che non vengono ritrovati casi di Psa, per questo secondo noi, andrebbe prestata attenzione alle aree all’interno del Parco nazionale d’Aspromonte. Altro dato preoccupante è che all’interno di queste zone, si registra l’aumento di incidenti stradali causati dai cinghiali. Ma nonostante ciò, inspiegabilmente, sono ormai 7 mesi che siamo trincerati sotto la morsa della Psa senza nessun passo in avanti verso la soluzione. Peraltro, non è stata fatta la suddivisione dell’area di restrizione 2 nelle fasce A e B, mentre nell’area 3, creata perché sono stati riscontrati casi di Psa nei maiali domestici, i cinghiali rimangono intoccabili e continuano a proliferare».                                                                            

Per Esposito, il secondo passaggio risiede «nel numero di partecipanti alla girata, ossia otto: una scelta che riteniamo inspiegabile e non adeguata. All’inizio dell’emergenza Psa, ci è stato spiegato che la caccia in braccata sarebbe rimasta chiusa per evitare, attraverso l’uso dei segugi, che gli animali venissero spostati da una zona all’altra. Fermo restando che in braccata, a oggi, si registrano i numeri maggiori di abbattimenti rispetto a qualsiasi altra forma, noi dovremmo intervenire con tre cani e un massimo di otto bioregolatori, una regola che porterebbe a pochi abbattimenti e alla possibilità maggiore che il cinghiale effettivamente venga “spostato” in un’altra zona. Non è difficile da capire che vale la proporzione “più poste, più abbattimenti”. Anche sui segugi da impiegare, riteniamo accettabile l’uso di un numero massimo di tre, ma se si intende che debbano essere abilitati, allora riteniamo che non si vogliano realmente abbattere i cinghiali».

Il presidente Esposito, non si capacita del fatto che per i cani utilizzati nella caccia al cinghiale vengano richieste determinate abilitazioni, sostenendo che «con l’emergenza in atto tutto ciò non è normale, invece di incentivare gli abbattimenti di cinghiale ci sembra si faccia tutto il contrario. Dobbiamo usare i mezzi adatti a ottenere gli obiettivi e non perdere tempo, quindi serve un cane che sappia cacciare il cinghiale e che sia ovviamente iscritto all’anagrafe canina e basta. Riteniamo in realtà che si voglia più organizzare corsi dalla dubbia utilità, piuttosto che cercare di risolvere il problema. Inoltre, è necessario garantire che gli animali abbattuti siano analizzati, sia per destinare i capi sani all’autoconsumo sia per ricavare un dato preciso sulla diffusione o presenza di Psa sul territorio. Ma non analizzarli e distruggere le carcasse subito dopo l’abbattimento. Peraltro, bisogna chiarire le voci secondo le quali dovremmo essere noi a coprire le spese per l’eventuale smaltimento di carcasse e derivati. In altre regioni e all’estero i cacciatori sono stati ricompensati e finanziati per aver contribuito alle attività di depopolamento».

Detto questo, Esposito solleva anche il problema dei danni all’agricoltura. «La situazione è drammatica – spiega – e bisogna intervenire con aiuti concreti non con proclami delle varie associazioni agricole. A breve gli agricoltori chiederanno l’apertura della caccia, il risarcimento dei danni e aiuti economici per un disastro che si poteva evitare. Tutto ciò, ci porta a prendere una decisione chiara, precisa e non negoziabile. Dopo 7 mesi durante i quali chi di competenza non ha prodotto nulla di concreto, noi cacciatori vogliamo tempistiche certe e per intervenire nelle zone rosse chiediamo che ci vengano garantite alcune condizioni, senza le quali non intendiamo agire. Per abbattere i cinghiali abbiamo bisogno di un numero di poste più alto (8 deve essere il numero minimo), la possibilità di usare cani (anche massimo 3 per battuta), regolarmente iscritti all’anagrafe canina, ma senza inutili abilitazioni. Senza queste condizioni non possiamo realizzare gli abbattimenti richiesti anzi, rischieremmo di essere additati come i responsabili di una improbabile ma possibile diffusione della Psa. Per questo, alle nostre condizioni, ribadiamo massima disponibilità ma, se non verremo ascoltati, non saremo complici di un disastro ampiamente annunciato ed evitabile».

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