domenica,Aprile 28 2024

Reggio, subisce violenze per 15 anni prima di denunciare il marito

Il caso raccontato dall’avvocato Denise Serena Albano: «Quello della mia cliente non è un caso isolato, serve un rinnovamento culturale e con urgenza»

Reggio, subisce violenze per 15 anni prima di denunciare il marito

Quindici lunghi anni di maltrattamenti, quindici lunghi anni di sopraffazioni, nei suoi confronti e nei confronti della figlia oggi adolescente. Il tutto con il silenzio “complice” della famiglia d’origine per salvare “il matrimonio”, le “apparenze”. È quanto avvenuto a una donna reggina che, finalmente, dopo tutto questo tempo ha trovato il coraggio di denunciare il marito. Ne parliamo con l’avvocato Denise Serena Albano, penalista e criminologa forense, legale della donna e della figlia.

Avvocato, ci parla del caso che sta seguendo?

«Si tratta di una donna e di una ragazzina che subiscono maltrattamenti di ogni tipo per quasi 15 anni.

La famiglia d’origine della signora in questione vive al primo piano. La signora viveva al secondo piano dello stesso stabile. Per 15 anni, nessuno della famiglia d’origine nonostante fosse consapevole, chiaramente, si è adoperato per fare uscire questa donna da tale situazione ed anzi hanno sempre cercato di metterci la toppa, per salvare il matrimonio, la famiglia. Quindi, io mi ritrovo ad affrontare un processo dove dovrò andare a spiegare il perché non c’è l’intervento di una volante in 15 anni, il perché la famiglia d’origine non si è mossa…».

Neanche la vittima si è mossa…

«Anche qui c’è un altro aspetto da considerare. Parliamo di una signora che non lavora, senza un livello culturale adeguato. E non si tratta di un caso isolato. Alla fine, purtroppo, queste donne si imprigionano in se stesse, c’è da un lato l’handicap economico che pesa tantissimo, specie da noi, dall’altro il fatto di non avere avalli da nessuno, che ti porta alla fine ad una accettazione passiva della situazione».

Cosa l’ha spinta a denunciare alla fine?

«Io. Perché lei era venuta in studio in quanto la figlia soffre di una grave patologia e si era ritirata dalla scuola. Aveva dei problemi proprio per questo motivo e così abbiamo iniziato a fissare degli incontri, durante i quali ha cominciato ad aprirsi, a piangere, a sfogarsi. Sia lei che la figlia si sono sentite ascoltate, credute, mi hanno raccontato episodi molto duri e alla fine hanno deciso di denunciare.

Questo può essere d’aiuto a molte donne, vittime, che magari non si sono mai confidate, non sono mai andate in ospedale, può essere da stimolo per farle uscire alla luce del sole, infondere loro il coraggio di andare avanti, di denunciare. Questo è il messaggio che voglio lanciare, non dovete avere paura, non siete sole».

Serve un rinnovamento culturale, dunque?

«È bene che se ne parli perché ci vuole un rinnovamento culturale e anche con urgenza, perché i provvedimenti che ci sono a livello nazionale sono sempre insufficienti. Aldilà della tutela sulla carta, considerando anche gli ultimi interventi del Codice Rosso, il problema è più pratico. Certo, devo sottolineare che dalla denuncia alla chiusura delle indagini nel caso della mia cliente, è stato tutto rapidissimo, il che mi rassicura, ma non si dovrebbe arrivare a questo. Purtroppo non si registrano, infatti, diminuzioni dei casi di violenza neanche con tutte le corsie preferenziali introdotte. E questo perché c’è un vuoto sulla tutela preventiva, benchè ci sia una tutela punitiva in astratto che potrebbe anche essere considerata adeguata. Bisogna agire a partire dalle scuole, dalla primissima infanzia, perché il fenomeno è tutto culturale. Se penso che una donna si deve svegliare ogni mattina per difendere la propria libertà, per me è raccapricciante, oggi una donna deve difendere la propria libertà per il solo fatto di essere donna».

Ma dopo la denuncia che succede?

«Lo Stato, in questi casi di violenza più allarmanti, ti propone una destinazione protetta, come è stato proposto alla mia cliente, spesso in una comunità condividendo gli spazi con tutte le altre persone presenti. Viene garantito il pasto, a pranzo e a cena, ma sicuramente una donna non ha i presupposti per rifarsi una vita, per essere autonoma e, come nel caso della signora, il denaro necessario per far fare alla figlia gli esami e le visite mediche per la sua malattia. Insomma è una soluzione in via d’urgenza, ma poi?».

Serve un aiuto economico dello Stato?

«I soldi sono “catene”, purtroppo, soprattutto qui da noi con molte famiglie monoreddito o spesso con lavoro nero che quindi non fa risultare neanche il reddito. Avere una base economica consentirebbe alla donna di avere quello scatto interiore che la spinge a denunciare a tirarsi fuori da una situazione prima che arrivi a conseguenze irreparabili. Ed è lo Stato che deve intervenire, dare aiuti concreti per dare modo alla vittima di potersi muovere, di rifarsi una vita, di poter tornare a vivere.

Se non risolviamo, se non mettiamo, a livello concreto, la donna nella stessa posizione dell’uomo considerandola come persona non come donna, e dandole gli strumenti per esercitare la libertà che è un diritto che nasce con la persona, questo problema non lo risolviamo né con pene più severe, né con corsie preferenziali».

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