sabato,Ottobre 12 2024

Omicidio Maria Chindamo, domani inizia il processo dopo 8 anni

Tra gli imputati Salvatore Ascone, accusato di avere concorso anche all'occultamento e alla distruzione del cadavere dell'imprenditrice di Laureana di Borrello

Omicidio Maria Chindamo, domani inizia il processo dopo 8 anni

Non è più solo un cammino di speranza, senza il quale certamente tutto sarebbe stato diverso, ma è finalmente anche un percorso intriso di quella verità attesa e cercata per quasi otto lunghi anni dai familiari di Maria Chindamo, il fratello Vincenzo e i figli Letizia, Federica e Vincenzo. L’imprenditrice, originaria di Laureana di Borrello, fu brutalmente uccisa dopo essere stata rapita il 6 maggio 2016 davanti all’ingresso della sua azienda agricola a Limbadi, nel vibonese. Aveva 42 anni.

Inizia domani, alle 12.30 dinnanzi alla Corte di Assise di Catanzaro, presso il nuovo palazzo di giustizia Francesco Ferlaino, il processo che tra gli imputati vede anche Salvatore Ascone, accusato di avere manomesso il sistema di videosorveglianza installato presso l’immobile sua proprietà, sita in Limbadi, e così di avere collaborato attivamente alle fasi di pianificazione, organizzazione ed esecuzione dell’omicidio di Maria Chindamo. Ascone è accusato, altresì, di aver concorso con l’ex suocero della donna, Vincenzo Punturiero, poi deceduto, a cagionare la morte dell’imprenditrice, collaborando alla distruzione e all’occultamento del cadavere, gettato in pasto ai maiali e poi triturato con la fresa di un trattore.

La libertà affogata nel sangue

Una morte brutale e un quadro atroce quello restituito dalla procura nel quale Maria Chindamo sarebbe divenuta destinataria di un’atroce vendetta, per essere stata una donna libera di cercare la felicità e l’amore dopo un matrimonio finito, e di ritorsione, per avere difeso la sua azienda e le sue terre dalle mire del clan Mancuso di Limbadi.  

Nel decreto che dispone giudizio si legge nero su bianco che il processo avrebbe riguardato, se ancora in vita, anche Vincenzo Punturiero nella veste di mandante, unitamente ad altri soggetti in corso di identificazione, del delitto pianificato per vendicare il suicidio del figlio Ferdinando Punturiero, avvenuto in data 8 maggio 2015 e per punire Maria Chindamo di averlo lasciato e di avere intrapreso una nuova relazione sentimentale con Giovanni Tagliaferro. Una relazione resa nota proprio due giorni prima del delitto.

L’intreccio e il sodalizio criminale

Un contesto familiare e personale che si era intrecciato fittamente con l’interesse maturato in capo allo stesso Ascone e al referente territoriale del clan Diego Mancuso, relativo all’acquisizione del terreno in cui sorgeva l’azienda agricola divenuto nel frattempo di proprietà esclusiva di Maria Chindamo e dei figli minori.

In questo contesto il 6 maggio 2016, Maria Chindamo spariva nel nulla senza che successivamente neppure il corpo fosse stato trovato. Un caso di lupara bianca che solo lo scorso anno, nell’ambito dell’inchiesta Maestrale Carthago condotta dalla direzione distrettuale antimafia di Catanzaro, ha iniziato a restituire questo quadro agghiacciante ancora non del tutto completo. Domani a Catanzaro la prima udienza del processo anche a carico di Salvatore Ascone che in concorso con Vincenzo Punturiero (deceduto), con Rocco Ascone all’epoca dei fatti minorenne e con altri soggetti allo stato ignoti, avrebbe posto in essere «più azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso, anche in tempi diversi perpetrate».

La manomissione delle telecamere e la distruzione del cadavere

Tra le condotte contestate, dunque, la manomissione del sistema di videosorveglianza installato presso l’immobile sua proprietà, sita in Limbadi, località Montalto, contrada Carini, di fronte all’ingresso dell’azienda di Maria Chindamo, dove la donna fu fatta sparire nel 2016. Avrebbe posto in essere questa manomissione in modo «da impedire la registrazione delle immagini riprese dalla telecamera orientata proprio sull’ingresso della proprietà di Maria Chindamo».

La  manomissione sarebbe avvenuta «accedendo – prima dell’arrivo dei Carabinieri della Stazione di Limbadi e del loro sopralluogo all’interno dell’immobile – al sistema di video sorveglianza per ricercare e prelevare eventuali file che risultassero presenti nel sistema, collaborando fattivamente nella fase della pianificazione, organizzazione ed esecuzione dell’omicidio, così fornendo un contributo causale determinante alla commissione del delitto e agevolando gli autori materiali del sequestro e dell’omicidio della donna, che operavano sapendo di poter agire indisturbati e con la sicurezza di non essere ripresi e, dunque, successivamente individuati».

Così si legge nel decreto che dispone giudizio. L’altra condotta contestata riguarda il concorso «a cagionare la morte di Maria, di cui distruggevano ed occultavano altresì il cadavere gettandolo in pasto ai maiali e triturandone i resti con la fresa di un trattore».

La premeditazione e l’aggravante mafiosa

Ciò con l’aggravante di aver commesso il fatto con premeditazione, pianificando e portando a compimento l’agguato. Contestata, altresì l’aggravante di aver agito «al fine di agevolare l’attività della cosca Mancuso, quale articolazione territoriale della ramificata organizzazione criminale di tipo mafioso denominata ‘ndrangheta, oltre che avvalendosi del comportamento oggettivamente idoneo ad esercitare una particolare coartazione psicologica, in quanto dotato dei caratteri propri dell’intimidazione derivante dall’associazione di tipo mafioso ed armata».

Un cammino difficile e sempre più condiviso

«In tutti questi anni  – racconta il  fratello Vincenzo Chindamo – siamo stati sostenuti da movimenti, associazioni, come Penelope Italia odv, Libera Vibo Valentia coordinamento provinciale, Goel, gli avvocati Nicodemo Gentile e Antonio Cozza, tantissime scuole, in una parola dalla comunità. Sono grato del sostegno e della vicinanza dei tanti che hanno contribuito e che ancora contribuiranno ad amplificare i  nostro appelli di verità e giustizia.

Di anno in anno abbiamo visto persone, anche giovani, starci accanto all’ingresso dell’azienda di Maria oggi affidata al consorzio Goel e salvata dalle grinfie del malaffare, ogni 6 maggio. Da quel cancello siamo partiti, vedendo al nostro fianco tante persone, anche abitanti di Limbadi. È stato un cammino difficile che abbiamo condiviso e nel quale si siamo sentiti sempre meno soli. Un cammino nato da un dolore immenso che però ha saputo generare speranza, rinascita e riscatto e che non finisce. In questi otto anni non sono mancati i momenti di scoraggiamento, in cui la verità continuava a rimanere sepolta, lontana. Nostra madre Pina se n’è andata senza conoscere la verità sulla morte di Maria e con i figli di Maria ci siamo spesso chiesti quando le tante quotidiane battaglie avrebbero iniziato ad essere vinte anche con la verità», racconta ancora Vincenzo Chindamo.

La speranza e la fiducia, la giustizia e la verità

«Adesso, agli albori di questo processo, ci aspettiamo un percorso con una velocità diversa, in cui lo Stato si è reso più manifesto. In otto anni ci sono stati silenzi operosi e si è lavorato molto. Questo processo ne è la dimostrazione. Non ho mai smesso di credere, lungo questo interminabile periodo, nello Stato come non smetterò di credere che, nonostante tutto, Maria sia ancora tra noi a dire, a parlare, a scegliere da che parte stareAvrebbero voluto piegarla e sottrarle le sue terre e invece esse sono rimaste libere, adesso affidate ad un consorzio Goel che le farà fiorire nell’etica e nella legalità per i figli di Maria.  Hanno voluto rubarle il futuro ma, grazie al cammino di memoria ormai avviato, il suo nome, la sua storia, la sua vita non periranno». Così conclude il fratello Vincenzo Chindamo.

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