Cesare Pavese, durante il confino a Brancaleone iniziò a scrivere “Il mestiere di vivere” – VIDEO
Esiliato in terra calabrese dall'agosto del 1935 al marzo del 1936, proseguì la stesura del diario fino al 1950, anno in cui a Torino il 27 agosto si suicidò
“Che qualcuna delle ultime poesie sia convincente, non toglie importanza al fatto che le compongo con sempre maggiore indifferenza e riluttanza. Nemmeno importa molto che la gioia inventiva mi riesca qualche volta oltremodo acuta. Le due cose, messe insieme, si spiegano coll’acquisita disinvoltura metrica, che toglie il gusto di scavare da un materiale informe, e insieme interessi miei di vita pratica che aggiungono un’esaltazione passionale alla meditazione su certune poesie”. Così lo scrittore piemontese Cesare Pavese iniziava ad annotare su un diario, attraverso appunti frammentari, pensieri e riflessioni.
Era l’ottobre del 1935, lui era confinato in Calabria, a Brancaleone, sulla costa ionica reggina, e quel diario si sarebbe rivelato di fatto la sua autobiografia, pubblicata postuma nel 1952 da Einaudi a cura di Massimo Mila, Italo Calvino e Natalia Ginzburg, con il titolo “Il mestiere di vivere. Diario 1935-1950”. Pagine e pagine che avrebbero racchiuso quindici anni di inquieta esistenza. Pavese scrisse l’ultima pagina di diario qualche giorno prima di togliersi la vita, il 27 agosto del 1950 a Torino.
L’esilio a Brancaleone, in Calabria
A Brancaleone Pavese arrivò ammanettato e scortato il 3 agosto del 1935. Da uomo e letterato non allineato al regime fascista venne esiliato in fondo all’Italia, condannato a tre anni di confino, poi ridotti a sei mesi, che scontò dall’agosto del 1935 fino al 15 marzo 1936. Non ritenuto indigente non gli fu riconosciuto un sussidio, motivo per cui a Brancaleone impartiva lezioni di latino e letteratura italiana per vivere. Un’attività che gli valse il soprannome di “U prufissuri”.
“Qui i paesani mi hanno accolto umanamente, spiegandomi che, del resto, si tratta di una loro tradizione e che fanno così con tutti. Il giorno lo passo “dando volta”, leggicchio, ristudio per la terza volta il greco, fumo la pipa, faccio venir notte; ogni volta indignandomi che, con tante invenzioni solenni, il genio italico non abbia ancora escogitato una droga che propini il letargo a volontà, nel mio caso per tre anni. Per tre anni!”, scriveva l’intellettuale piemontese in una lettera al suo professore Augusto Monti.
Soleva leggere il giornale al Bar Roma. Dopo le prime notti in una stanza sopra questo celebre bar, dove foto e articoli di giornale ricordano ancora oggi questo illustre passaggio, a Cesare Pavese fu data una stanza, in un edificio sito al numero 1 di Corso Umberto a Brancaleone. Qui insegnava, scriveva il suo diario e non solo, con le spalle rivolte alle ferrovie, al mare calabrese e ai gelsomini.
Il diario iniziato nel 1935 a Brancaleone
Immerso nei paesaggi brulli e selvaggi della Calabria, lambito dal calore degli abitanti, Cesare Pavese sancì in Calabria il suo passaggio dalla lirica a alla prosa: pur continuando a comporre poesie della raccolta, pubblicata nel 1936, “Lavorare Stanca”, egli iniziò durante il suo confino a scrivere, appunto, “Il mestiere di vivere. Diario 1935-1950”.
Su quella scrivania campeggiavano scritti e appunti che poi confluirono nel diario. Cesare Pavese, originario di Santo Stefano Belbo, in provincia di Cuneo, dove era nato nel 1908, confinato dal regime in Calabria, fu in quei mesi un uomo sospeso tra le sue langhe desolate e quei colori selvaggi e quei visi cotti dal sole.
“L’immobile estate era trascorsa in un lento silenzio, come un solo pomeriggio trasognato. Di tanti visi, di tanti pensieri di tanta angoscia e tanta pace non restavano che vaghi increspamenti, come i riflessi di un catino d’acqua contro il soffitto”. A Stefano, il personaggio autobiografico del romanzo “Il carcere”, di cui il mare ed i gelsomini calabresi rappresentano le pareti e l’orizzonte, scritto tra il 1938 e il 1939 e pubblicato nel 1948 unitamente a “La casa in collina” in “Prima che il gallo canti”, titolo del film calabrese diretto dal regista catanzarese Mario Foglietti negli anni Novanta, Pavese affidò la descrizione del tempo trascorso da confinato politico in un paese del profondo Sud. Per i personaggi si ispirò anche a gente del luogo, a persone realmente esistite e conosciute.
La Casa e la Memoria
Oggi, grazie alla generosità di Tonino Tringali, attuale proprietario dell’edificio in cui Pavese alloggiava, quella sua stanza è ancora arredata e aperta al pubblico per essere visitata. Un tributo alla sua Città e anche alla memoria del padre, Giuseppe Tringali, che pure desiderava ciò, come attesta la Porta Pavese realizzata con le sue mani e che adesso adorna il cortile interno all’edificio, visitabile da turisti e appassionati e cornice di numerose iniziative culturali.
Tra queste particolarmente emozionante è stato l’incontro svoltosi nel 2016, su impulso del circolo culturale Guglielmo Calarco di Reggio Calabria e della Pro Loco di Brancaleone, in memoria del saggista e scrittore Gianni Carteri e del suo constante e appassionato tributo alla Calabria, alle sue bellezze, ai suoi luoghi spesso segnati da calamità e abbandoni, alla sua gente, ai suoi scrittori per origini o per storia, come Cesare Pavese. A quest’ultimo Gianni Carteri aveva dedicato il volume, edito da Rubbettino nel 2015, “Memorie al confino. Pavese, Brancaleone e altri miti”. Scomparso proprio in quell’anno, Carteri aveva fatto in tempo solo a vedere il volume stampato. Il titolo dell’incontro alla memoria, “Il bambino che chiuse il paese. Incontro con Gianni Carteri”, richiamava quel momento del 1958 quando, a soli sei anni, Gianni bambino aveva dovuto lasciare il paese natio di Brancaleone vecchio, segnato rovinosamente da sismi e alluvioni, per trasferirsi a Bovalino dove poi aveva vissuto.
Pavese, scrittore e traduttore
Appassionato di lingua inglese e letteratura anglo-americana, laureatosi con una tesi su “La interpretazione della poesia di Walt Whitman” presso la facoltà di Lettere e Filosofia di Torino nel 1930, Pavese fu tra i più grandi scrittori del Novecento italiano. Anche editor, traduttore e insegnante, fu autore di molte opere tra le quali “Lavorare stanca” (1936) per la poesia e per la prosa “La bella estate” (Premio Strega 1950), “Paesi tuoi” (1941), “La casa in collina’’ (1949), “La luna e i falò” (ultimo romanzo pubblicato in vita nel 1950), dal quale è tratta la sua celebre citazione: “Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti”.
Inviso al regime per le sue amicizie strette con intellettuali antifascisti di spicco quali Leone Ginzburg, Norberto Bobbio, Massimo Mila e Giulio Einaudi, figlio del futuro presidente della Repubblica Luigi Einaudi e fondatore della casa editrice di cui Pavese diresse la sede romana negli anni Quaranta, e per la sua fervida collaborazione con intellettuali della levatura di Giaime Pintor, Elsa Morante, Elio Vittorini, Italo Calvino, Natalia Ginzburg. Intensa fu la sua attività di traduttore: Melville, Joyce, Dickens, Defoe, Faulkner.
Le lettere e il confino
Per poter insegnare nelle scuole, si era iscritto suo malgrado, al partito fascista nel 1932. Ma questo non bastò a salvarlo. Nella nuova ondata di 200 arresti abbattutasi nel maggio del 1935 sugli intellettuali appartenenti al movimento di Giustizia e Libertà e che collaboravano con la rivista La Cultura, vi fu anche Pavese, ritenuto pericoloso perché direttore della stessa rivista e per favoreggiamento nella corrispondenza clandestina. Erano state trovate in casa della sorella Maria dove abitava, alcune lettere inviate da Bruno Maffi, attivista di Giustizia e Libertà, a Tina Pizzardo, donna di cui lo stesso Pavese era innamorato, senza però essere ricambiato.
L’inquietudine e il tarlo del suicidio
Al rientro in Piemonte nel 1936, Pavese riprese le sue attività di editor, traduttore e scrittore, consacrandosi per il suo stile essenziale e poetico. Nel dopoguerra si iscrisse al partito Comunista e, collaborando presso la redazione de L’unità, conobbe Italo Calvino. Nonostante i riconoscimenti e le pubblicazioni, non si placarono mai la sua inquietudine e il suo tormento esistenziale che duramente segnarono il suo carattere introverso e solitario. Tante, troppe le ferite del cuore e dell’anima: la delusione di un amore tradito e non corrisposto, il ricordo cocente di un esilio immeritato, la sua fede politica vissuta fino ad un certo punto, l’umorismo tragico, l’abbandono da parte dell’attrice americana Constance Dowling, l’inguaribile disperazione, l’inestricabile senso di solitudine lo consegnarono al lavorio del tarlo del suicidio.
Il 27 agosto 1950, nell’hotel torinese di nome Roma, come il bar calabrese dove si recava sovente a Brancaleone, all’età di quasi 42 anni, si tolse la vita. Un suicidio in piena stagione del trionfo: un mese prima aveva vinto il premio Strega con “La bella estate”.
“La cenere sono i libri che ho scritto”
La vita di Cesare Pavese fu avvolta dal fuoco sacro che è l’urgenza di scrivere. Quando quel fuoco, così totalizzante e catalizzatore di una intera esistenza, si spegne non resta che la fine. Una fine annunciata in quelle ultime parole del suo diario, iniziato da confinato a Brancaleone, in Calabria, nel 1935:
“Più il dolore è determinato e preciso più la vita si dibatte e cade l’idea del suicidio (…) Non parole. Un gesto. Non scriverò più”, 18 agosto 1950.
Una fine annunciata anche nella sua lettera indirizzata a Pierina, come lui chiamava Romilda Bollati, sorella dell’editore Giulio: “non si può bruciare la candela dalle due parti. Nel mio caso l’ho bruciata tutta da una parte sola e la cenere sono i libri che ho scritto”.