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Reggio, garante Muglia: «Le parole per costruire relazioni e rieducare i detenuti» – VIDEO

Questa mattina l'incontro nella cornice del Polo culturale Mattia Preti di Palazzo Campanella, sede del Consiglio regionale della Calabria

Reggio, garante Muglia: «Le parole per costruire relazioni e rieducare i detenuti» – VIDEO

L’importanza del linguaggio per preservare l’identità della persona detenuta quale membro della comunità sociale al di là della restrizione della libertà. Il linguaggio come strumento di sintesi delle relazioni sociali ed educative all’interno del carcere. Il linguaggio come viatico essenziale per favorire una effettiva rieducazione dell’uomo, che durante la detenzione è chiamato a sperimentare e delineare nuovi percorsi e un futuro di segno diverso rispetto al passato.

Così si declina in una realtà carceraria, il ruolo essenziale del linguaggio che media qualunque contatto con la realtà. Un potenziale che rivela la portata negativa devastante se non improntato ai giusti principi di rispetto e inclusione.

Da qui il titolo dell’incontro odierno “Parole e carcere: la fabbrica del linguaggio” promosso dal garante regionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale, Luca Muglia. L’incontro, svoltosi a Reggio nella cornice del Polo culturale Mattia Preti di Palazzo Campanella, sede del Consiglio regionale della Calabria, è stato aperto dai saluti di numerose autorità.

Parole e carcere

L’evento, moderato dallo stesso garante regionale Luca Muglia è stato scandito da tre ricche relazioni. Ha aperto Roberta Travia disquisendo di “Vita detentiva, identità e diritto”. Cristiana Cardinali ha poi approfondito “Le parole per il cambiamento: espressione autobiografica, progettualità inclusiva e agire educativo nel trattamento penitenziario”. Ha chiuso, con “Le parole sono pietre: perché è importante evitare di scagliarle impropriamente” Silvano Tagliagambe.

«Nel rilevare e affrontare le criticità del delicato settore carcerario, dalla formazione alla sanità, ci siamo resi conto che la chiave di volta per interventi efficaci è il linguaggio. Un linguaggio in grado di superare pregiudizi ed etichette che di fatto impediscono le relazioni e costruiscono solo gabbie.

Con l’ausilio delle neuroscienze e dell’area educativa, la possibilità di cambiamento e di trasformazione delle persone è concreta. Da qui l’idea dell’autorevole confronto di oggi. Crediamo che il carcere necessiti di un linguaggio calibrato sulle specificità del contesto. Un linguaggio che sia fabbricato “dentro” per ricostruire e ripristinare il legame e l’appartenenza alla comunità che non vive la detenzione». Lo ha sottolineato il garante regionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale, Luca Muglia.

Identità e detenzione

«Nella ritualità del carcere analizzare il senso dell’uso di parole e di espressioni in un contesto linguistico diverso da quello usuale porta a conoscere quindi, i motivi che guidano il senso delle persone nel loro quotidiano interagire e a comprendere la visione culturale che essi attribuiscono alla realtà del mondo chiuso.

In tutto questo l’identità non deve disperdersi ma deve rivestire un ruolo fondamentale nel percorso di rieducazione. Questo non deve solo tendere a evitare la perdita dell’identità stessa, a causa della restrizione della libertà, ma deve anche concorrere a un suo confronto con il passato e con il presente proiettato nel futuro. Un confronto che possa permearla di nuova vitalità.

In questa ottica il linguaggio è fondamentale quale strumento di comprensione, essenziale in un contesto di per sé ristretto e dove è fin troppo facile sperimentare lo smarrimento, strumento di estensione dello sguardo che dall’errore si allarghi alla possibilità di trasformazione e nuova vita.

Una trasformazione che è progresso per la società se è vero che la condizione carceraria riguarda coloro
che stanno dentro
me essa, come problema di civiltà, è prima di tutto un problema di chi
sta fuori
». Lo ha evidenziato Roberta Travia, dottoressa di ricerca in diritto civile dell’Università Mediterranea di Reggio Calabria.

Una nuova narrazione di sé

«Il dispositivo autobiografico, inteso come nuova e dinamica narrazione di sé, costituisce l’innesco per la revisione critica, per noi punto di partenza verso il cambiamento. L’autobiografia non è un racconto solitario ma un racconto che parte da sé affinché questo sé venga posto in relazione con tutto quello che ci circonda.

Un processo dinamico che dal passato, vive il presente e si proietta nel futuro. La nostra esperienza punta a valorizzare talenti che gli stessi detenuti potrebbero non avere mai coltivato prima ed è incentrata sull’espressione autobiografica veicolata dai tanti linguaggi dell’arte come la pittura, il teatro, la danza. Dunque non solo un’autobiografia scritta.

Riteniamo che questi percorsi conferiscano senso e compiutezza al tempo della pena e operino nella direzione di quel risarcimento educativo che è dovuto da parte di una società che non ha saputo prevenire la devianza». Lo ha messo in luce Cristiana Cardinali, professoressa a contratto del Dipartimento di Scienze Umane della Lumsa di Roma, che conduce esperienze nella casa circondariale di Latina.

Mai fermare il tempo

«Il processo dinamico generato normalmente dal linguaggio, in carcere assume un’importanza essenziale. Non deve, dunque, tendere a fermare il tempo. Per un detenuto il pericolo maggiore è restare bloccato nel momento del reato. Una cristallizzazione che il linguaggio e le relazioni dinamiche possono impedire. Invece le relazioni statiche, alimentando quella cristallizzazione, ostacolano la costruzione dell’identità personale e la ricerca e l’individuazione di uno scopo. Ostacolano la possibilità di un riscatto e di cambiamento reali e quindi l’effettivo reinserimento sociale. Il linguaggio deve, invece, sempre accompagnare verso un nuovo senso di appartenenza.

Nelle “Memorie di una casa morta” Dostoevskij, che conobbe la prigione di Omsk, interroga di volta in volta i personaggi sulle vicende che li hanno condotti in carcere. Una successione di storie, una raccolta di racconti di personaggi a renderlo consapevole dell’esigenza vitale di liberarsi del “catalogo di etichette”. Un simile catalogo lo si deve buttare via, perché le etichette sono un ostacolo alla comprensione di quello che ci circonda.

Una comprensione invece essenziale per ricominciare e prendere coscienza del superamento dell’azione delittuosa», ha concluso Silvano Tagliagambe, professore emerito di Filosofia della scienza dell’Università di Sassari.

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