Una piccola stella in più in cielo, quando la cronaca sconfina nel sentimento
La morte della neonata abbandonata in uno zaino tra i scogli della costa villese ha scosso animi e lasciato troppi interrogativi
Nella mia testa si è creata un’immagine bellissima. Per me si chiamava Aisha. Aveva la pelle di quel colore stupendo che solo dopo mesi di abbronzatura riesco ad ottenere. Avrebbe avuto una cascata di capelli lisci e lucidi e un sorriso straordinario.
È un ritratto rimasto solo nella mia testa dopo aver mandato giù un numero indefinito di lacrime e aver ascoltato ricostruzioni fantasiose di ogni tipo. Aisha non ha mai avuto un nome. I capelli non hanno avuto il tempo di crescere e i suoi occhi non hanno mai visto la luce del sole. È morta prima ancora di poter vivere. Il suo corpicino ritrovato per puro caso era ancora sporco di placenta. Il cordone ombelicale attaccato e la pelle violacea della morte.
Era la giornata dei bambini. Doveva essere una domenica di festa dedicata ai bimbi che si accostavano alla prima Comunione. Nulla di tutto questo doveva accadere. E la fantasia fa a pugni con una realtà atroce.
Lo strazio ha lasciato presto spazio allo sgomento. Nelle ore passate sul lungomare di Villa San Giovanni aspettando che la polizia e il magistrato facessero il loro dovere, ho ascoltato ricostruzioni di ogni tipo. Quella reale fatta da chi non dimenticherà più questa giornata perché ha scoperto il corpicino di Aisha, è quella che vi abbiamo raccontato. Poi hanno preso il via le supposizioni. «Sarà morta durante il parto e dovevano sbarazzarsi del corpo». «Sarà arrivata dal mare, forse qualche migrante». «Sarà morta soffocata ma perché non lasciarla di fronte alla chiesa qui vicino?». «Lo zaino è stato portato li da terra non è arrivato dal mare».
Tutte ricostruzioni e ipotesi che si sono rincorse per lunghe ore. Ma a mente lucida una sola cosa continua ad assillarmi. Una domanda che probabilmente non avrà mai una risposta. Dove abbiamo sbagliato? Quando è successo che una donna di qualsiasi nazionalità, anche straniera e non in regola, non si è più sentita al sicuro per poter chiedere aiuto durante una gravidanza difficile o inaspettata? Quando abbiamo smesso di occuparci l’uno degli altri? Abbiamo deciso di isolarci e lasciare solo chi soffre. Qui non è una questione di giudizi, facili da sparare in queste occasioni.
Qui è una questione di responsabilità sociale e morale che ognuno di noi deve avere per vivere in questo mondo. Diversamente siamo consumatori di ossigeno abusivi. Se non riusciamo a interrogarci neanche sulla morte di una bimba appena nata esiste un problema ben più profondo. La morbosità di scattare foto e video della scena del delitto ha preso il sopravvento. Improvvisamente Aisha non era più tra le lacrime dei passanti ma nei cellulari dei curiosi. Io non credo che sia questo il modo. L’intera comunità è rimasta sbigottita di fronte a una di quelle notizie che di solito ascolti al Tg con distacco perché “lontano da te”.
Oggi Aisha era sotto il nostro naso. Inerme, piccola, indifesa. E una madre che prende una decisione simile è una donna che sicuramente si trova in uno stato di forte sofferenza e disagio. E io mi domando perché non esiste una rete di supporto a cui rivolgersi quanto il dolore prende il sopravvento? Quando la paura di vivere è più forte di quella della morte? Io non lo so se Aisha è morta prima o dopo essere rinchiusa in quello zaino. Lo stabilirà il medico legale. Ma adesso non importa. Aisha non ha mai potuto vedere la luce del sole o ascoltare le onde che si infrangono sugli scogli.
E noi abbiamo fallito tutti quando abbiamo deciso di giudicare, facile, troppo facile. E lasciato che Aisha e la sua mamma diventassero invisibili. Un mondo terrorizzato a tal punto dalla sofferenza da non essere più in grado di riconoscerla e di porgere una mano. Aisha non vedrà la luce sole e ne siamo tutti responsabili.