Reggio 14 luglio 1970, una storia lunga 53 anni celebrata solo in parte

«Nacque come una rivolta di popolo ma poi divenne altro». In questo pensiero di un cittadino di Reggio Calabria, interpellato sui moti del 1970, si condensa tutta la complessità di una delle pagine più critiche della nostra storia.

Reggio Calabria, Italia

Nel 1970, con soltanto ventidue anni di ritardo rispetto all’entrata in vigore della Costituzione che le aveva istituite, le regioni prendevano vita. Reggio Calabria aspirava a diventare capoluogo della Regione. Ma forse c’era anche dell’altro.

In quel frangente Reggio fu teatro di eventi già di fondamentale importanza per la storia regionale. Eventi che assunsero anche rilevanza nel quadro nazionale di un’Italia inquieta e agitata da forze violente e sovversive. Nel dicembre del 1969 era esplosa la bomba a piazza Fontana a Milano. A Reggio, in preda ai moti, si concentravano pure gli interessi e le presenze di personalità del calibro di Junio Valerio Borghese, Franco Freda e Stefano Delle Chiaie. Circostanze tutt’altro che di poco conto e casuali. Esse depongono a favore di chi oggi sostiene che in quel frangente Reggio Calabria fosse divenuta un attivo laboratorio della destra eversiva pronta minacciare la Democrazia, stringendo alleanze con la ‘Ndrangheta e con la massoneria deviata.

In quel momento l’Italia era anche senza governo. Il presidente del Consiglio dei Ministri Mariano Rumor si era dimesso. Sarebbe succeduto, ma solo ad agosto, il democristiano Emilio Colombo. Per gli intellettuali arguti e attenti a Reggio Calabria stava succedono qualcosa di molto importate e dirimente per la storia del Paese. Per questo la città con i suoi moti fu tra le vicende intricate che anche Pier Paolo Pasolini rievocò, recandosi in riva allo Stretto qualche anno dopo, nel documentario di Lotta Continua dal titolo 12 dicembre, diretto da lui e da Giovanni Bonfanti nel 1972. Un pagina storica rispetto alla quale, al netto di iniziative di parte, inspiegabilmente tace la memoria collettiva di questa città.

Le rivendicazioni del capoluogo e non solo

Il 14 luglio del 1970 fu il giorno successivo alla convocazione della riunione del Consiglio Regionale a Catanzaro. Scelta che già aveva innescato reazioni a Reggio. Il sindaco democristiano Pietro Battaglia aveva convocato una contro-assemblea. Già le prime barricate e i primi scioperi richiamavano in città carabinieri da tutta la Calabria. Le previsioni preoccupavano. Era il preludio di una città sotto assedio. Il 14 luglio del 1970 fu infatti il giorno della rivolta, con il corteo con in testa il sindaco Pietro Battaglia da piazza Garibaldi fino a piazza Italia. Con lui dinnanzi alla folla c’era anche il consigliere comunale missino, Fortunato Aloi.

Già nei mesi precedenti la città (studenti universitari compresi) si era mobilitata per rivendicare centralità e attenzione da parte del Governo. Il 5 luglio 1970 il sindaco democristiano Pietro Battaglia aveva già fatto il suo “Rapporto alla città”, per denunciare l’accordo politico-istituzionale stretto a Roma per istituire a Catanzaro, piuttosto che a Reggio Calabria, il capoluogo di Regione. Decisione ovviamente maturata lungo l’asse Catanzaro-Cosenza e sostenuta da due politici cosentini, il democristiano Riccardo Misasi e il socialista Giacomo Mancini.

Le barricate e l’assedio della città

Dunque il 14 luglio 1970 fu il giorno delle barricate sulla via Marina, sul corso Garibaldi, dei blocchi disseminati dalla zona di Sbarre, che nel corso dei fatti di Reggio divenne la Repubblica di Sbarre, fino al quartiere di Santa Caterina, poi battezzato Granducato di Santa Caterina. Era solo il primo giorno di un’agitazione protrattasi fino al 1972, con una scia di eventi ancora oggi oscurati da dubbi e misteri. Il deragliamento del Treno del Sole a Gioia Tauro, la morte dei cinque anarchici della Baracca e il fallito golpe Borghese sono fatti che risalgono ai mesi successivi di quel rovente 1970.

Il 14 luglio del 1970 fu anche il giorno degli scontri tra i dimostranti che occupavano autostrade e ferrovie e la polizia con i primi fermi e una città isolata dallo sciopero dei treni.

Le vittime dei moti e la guerriglia

Il 14 luglio del 1970 fu il giorno prima della morte del ferroviere Bruno Labate, il primo delle cinque vittime dei moti di Reggio. Nel corso degli eventi successivi morirono anche l’autista Angelo Campanella, gli agenti Vincenzo Curigliano e Antonio Bellotti e il barista Angelo Jaconis. Proclamato, nella giornata del 16 luglio, il lutto cittadino mentre la curia, guidata da monsignor Giovanni Ferro, pur sostenendo le ragioni della rivolta, tentava una pacificazione placando gli animi.

La guerriglia però incalzava e da allora fu un susseguirsi di scioperi, scontri con la “Celere”, assalti a prefettura e questura, attentati e cortei in una città.
Negozi, scuole, uffici chiusi, isolata dal blocco di stazione, strade, aeroporto e porto, con le vie bloccate dai carri armati e un dispiegamento di migliaia di militari in assetto antisommossa.

In strada anche gli imprenditori Demetrio Mauro e Amedeo Matacena, l’ex comandante partigiano Alfredo Perna e molte donne.

I comitati e il sopravvento di Ciccio Franco

Già si erano costituiti, e altri se ne costituirono dopo, comitati a sostegno delle rivendicazione e poi della rivolta. Ci fu il Comitato unitario per Reggio capoluogo guidato dal sindaco Pietro Battaglia. Ancora il Comitato d’agitazione poi Comitato unitario, guidato dall’avvocato Francesco Gangemi. Grande impatto ebbe poi il Comitato d’azione per Reggio capoluogo guidato dal dirigente missino Ciccio Franco, passato alla storia come il capopopolo in occasione della rivolta.

Nata, dunque, come una rivolta popolare, complici la dissociazione del partito Comunista e di quello Socialista e la defezione della Cgil, non si fece attendere il sopravvento dei movimenti di Destra. Con Fortunato Aloi scesero in campo Renato Meduri, Antonio Dieni e Ciccio Franco, sindacalista della Cisnal, con il celebre slogan “Boia chi molla”.

La storia che divide

Divisiva è ancora oggi l’interpretazione di quella storia. C’è chi pensa che furono poi i comitati di destra d’azione a guidare la rivolta e a strumentalizzarla. C’è chi resta convinto, invece, specie negli ambienti della destra, che sia stato comunque il popolo ad essere rimasto protagonista della rivolta.

Restano però tante zone d’ombra che non attengono alle rivendicazioni, chiare e legittime di una città usurpata dagli stessi calabresi, e che neppure riguardano la scintilla della rivolta. Certamente le ombre avvolgono gli eventi successivi.

I misteri nelle pieghe della Storia

Restano ignoti i mandanti del deragliamento del treno del Sole a Gioia Tauro avvenuto solo una settimana dopo, il 22 luglio del 1970. Persero la vita sei persone e settantasette rimasto ferite. Resta fitta l’ombra dell’eversione neofascista. L’attentato al Treno del Sole allora si collocava cinque mesi prima della data in cui era stato programmato, salvo poi essere improvvisamente annullato, il colpo di Stato in Italia, noto come Golpe Borghese.

Fitte zone di ombre ancora insistono pure su un altro evento drammatico, successivo di soli due mesi e frettolosamente archiviato come incidente stradale. Si tratta dell’impatto mortale tra un’auto e un autotreno con rimorchio, sulla Napoli-Roma in cui, il 26 settembre 1970, morirono 5 giovani. Erano gli anarchici reggini Angelo Casile, 20 anni, Franco Scordo, 18 anni, Gianni Aricò, 22 anni, la moglie tedesca neppure diciottenne Anneliese Borth, e il cosentino Luigi Lo Celso, 26 anni.

Frequentavano la Baracca (come veniva denominato il loro luogo di ritrovo a Reggio Calabria negli anni Sessanta, nell’attuale zona del cineteatro Odeon). Erano tutti giovani, tutti anarchici, tutti appassionati e convinti promotori di un cambiamento volto a realizzare condizioni di giustizia sociale e a ristabilire la verità. Tutti arguti animatori di una controinformazione, documentale e fotografica, su quanto stava avvenendo nel Reggino ed in Calabria in quel frangente così caldo. Una lungimiranza nata dallo studio e dall’osservazione attenta della realtà che potrebbe averli resi scomodi. La loro morte ancora interroga, ma purtroppo solo i pochi che ancora cercano la verità.

Una Storia che non è nota fino in fondo. Essa si inserisce in quella più ampia di un paese purtroppo avvezzo a depistaggi, deviazioni e sviamenti, occultamenti e sottrazioni di documenti e prove, insomma a verità negate.

Le tracce del fallimento

Specchio di tutto questo fu anche il fallimento di quei progetti pensati per creare sviluppo e occupazione nella Reggio, città scippata del Capoluogo poi istituito a Catanzaro. Uno scippo che si è tentato di camuffare con una sorta di distribuzione: la Giunta regionale a Catanzaro, il Consiglio regionale a Reggio Calabria (unica regione ad avere Consiglio e Giunta regionale in capoluoghi diversi) e l’Università a Cosenza.

Un fallimento che ha il volto della cattedrale nel deserto che oggi è la Liquichimica Biosintesi a Saline Joniche, praticamente mai entrata in funzione. Solo qualche mese dopo la sua attivazione nella prima metà degli anni Settanta, i mangimi consistenti nelle bioproteine ottenute da colture di microrganismi su derivati del petrolio, furono dichiarati cancerogeni. Essa fu costruita senza mai di fatto decollare.

L’altra opera contemplata nel cosiddetto pacchetto Colombo, ossia il Quinto polo Siderurgico d’Italia, da incardinare all’altro capo dell’allora provincia e oggi Città Metropolitana di Reggio Calabria, a Gioia Tauro, vista la crisi di settore, poi non fu mai costruito. Sì aprì così la strada all’infrastrutturazione del grande e odierno porto commerciale.

Quel pacchetto Colombo aveva già all’epoca avuto il sapore amaro di un ripiego rispetto alla negazione di altri diritti essenziali. Le misure straordinarie varate dal Governo guidato da Emilio Colombo prevedevano investimenti di un miliardo e settecento milioni di vecchie lire da spalmare su più interventi, per creare migliaia di posti di lavoro anche in Calabria. Un altro miraggio.

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