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STORIE DI ARTI E MESTIERI| Le filande di Villa San Giovanni

La fiorente industria della seta le garantì il nome di “piccola Manchester”. A metà ‘800 c’erano circa 50 filande. La filanda Cogliandro, unico esempio di riconversione dell’antico opificio

STORIE DI ARTI E MESTIERI| Le filande di Villa San Giovanni

Punto strategico per gli imbarchi per la Sicilia con i suoi “ferryboats” e importante centro commerciale della provincia reggina, Villa San Giovanni fino a un recente passato fu luogo di grande rilievo anche per l’industria della seta.

La seta Caracciolo e la prima filanda

Tutto ebbe inizio, intorno al 1790, quando il governo per migliorare l’industria della seta, diffusa nel territorio reggino, autorizzò Rocco Antonio Caracciolo ad aprire una filanda a Fossa (l’odierna Villa San Giovanni). Cominciò così l’attività dei fratelli Caracciolo che diedero impulso esponenziale
alla lavorazione della seta che prese, appunto, il nome di “seta Caracciolo” o “alla Sangiovannese”.

La piccola Manchester

Dagli inizi dell’Ottocento, Villa e Cannitello furono caratterizzate da una notevole attività filandiera. Molti seguirono, infatti, l’esempio dei Caracciolo e intorno alla metà del secolo, la città contava circa 50 filande. Poi, arrivarono anche gli investimenti degli imprenditori del nord ed europei, come gli Erba e gli Eaton, che aprirono attività in società con i filandieri villesi, tanto che la città meritò il soprannome di “piccola Manchester”.
Le esportazioni avvenivano in tutto il mondo, dall’Inghilterra all’Australia, passando per la Francia.
Le filande erano portate avanti quasi esclusivamente dal lavoro femminile, la cui presenza superava il 90%: mentre agli uomini spettavano solo compiti di manutenzione dei macchinari e di contabilità, erano le donne ad occuparsi della cernita e del trasporto dei bozzoli, della filatura e della finitura delle matasse.

«Dall’impercettibile seme, al bozzolo ambrato e lanuginoso, dal bozzolo alla stoffa più fine, tutto passa attraverso un esercito di macchine che si completano l’un l’altra. La serichiera, la stufa, il cocconiere, la filatura, l’incannatorio, l’ovale, la cardatura, la tintoria» si legge nelle pagine dell’inchiesta “Donne e industrie nella provincia di Reggio Calabria” pubblicata da Clelia Romano Pellicano nella Nuova Antologia del 1907.

Il tutto si svolgeva «sotto la sorveglianza di fanciulle quasi tutte giovanissime e graziose» mentre le maestre sedute innanzi al fornello erano intente al lavoro per trasformare magicamente il seme in tessuti preziosi.
Col tempo, però, il cessare dell’attività serica tradizionale, per via della crisi dovuta alle malattie che attaccarono i gelsi e alla lievitazione dei prezzi della materia prima che cominciò ad essere importata, le filande cominciarono progressivamente a chiudere.

Le pipe

La piccola Manchester continuò comunque a registrare esempi di attività artigianali ed industriali, meritando l’appellativo di “città operosa e all’avanguardia” anche per la lavorazione delle pipe.
Sin dall’inizio del Novecento era attiva, infatti, nel comune la rinomata fabbrica francese Vassas, sita nei locali dell’ex filanda Adriano Erba lungo la marina, rilevata dal toscano Egidio Dei che trasformò l’edificio in industria per la fabbricazione di abbozzi di pipe per conto della ditta dei fratelli Vassas. Nello
stesso periodo, sorse, presso la via Fontana Vecchia, un’altra fabbrica locale.
In entrambe, si lavoravano e raffinavano i ciocchi d’erica, per la realizzazione delle pregiate pipe in radica, che venivano poi esportati nel nord Italia, in Europa, soprattutto Francia, Germania e Inghilterra, e negli Stati Uniti, per la lavorazione finale e la commercializzazione.

Era un’attività che dava lavoro ad un nutrito gruppo di operai, boscaioli e trasportatori del legno e che fu fiorente sino ai primi anni Ottanta, quando, a causa della diminuzione della domanda e delle diverse esigenze della produzione di massa, le fabbriche furono costrette a chiudere.

La proposta: riconvertire le filande in musei

Oggi le imponenti strutture del passato (Eaton, Erba, Florio, Messina, Marra, Caminiti, ecc.) continuano a stagliarsi come testimoni silenti della gloriosa attività, in stato di totale decadenza.
Alcuni edifici non sono più esistenti. Qualcuno, sulla via delle Filande, è stato trasformato in un ristorante, conservando anche qualche antico arredo, ma fatta eccezione per la filanda Cogliandro, oggetto di un importante progetto di riqualificazione e riconversione dell’antico opificio in un esempio di archeologia industriale e centro culturale, le altre antiche testimonianze del passato rimangono soggette all’usura del tempo o, peggio, alle esigenze edilizie.
Sulla scia delle analoghe iniziative realizzate in altre città, potrebbero, invece, essere ideati veri e propri itinerari/musei di archeologia industriale che contribuiscano a mantenere intatta la memoria di questa indimenticabile pagina di storia manifatturiera della provincia reggina, soprattutto a favore
delle nuove generazioni che hanno il diritto di conoscere le proprie gloriose origini.

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