Reggio, approdano in teatro il dramma e la speranza dei migranti sepolti nel cimitero di A(r)mo – FOTO e VIDEO

Accolti nella terra e lì sepolti. Oggi delle lapidi in marmo giacciono su quella stessa terra come a segnare un’esistenza seppure nell’assenza, che restituisca quella dignità che il mare, se ne avesse inghiottito i corpi, come già è accaduto, come accade e come ancora accadrà, avrebbe negato.

Siamo ad Armo, frazione collinare di Reggio Calabria, dove da anni sorge il cimitero dei migranti realizzato dalla Caritas su suolo comunale. Due anni fa è stato completato con la collocazione delle lapidi. Qui per i tanti che con la vita hanno perso anche il nome, vi è almeno un luogo in cui giacere, un posto in quella vita che avrebbe potuto essere e che invece si è infranta tra le onde del Mediterraneo, ancora prima di iniziare. Questo luogo ha ispirato la penna di Tiziana Bianca Calabrò che ha immaginato di ambientare in questo luogo simbolo lo spettacolo teatrale A(r)mo.

Così tra quelle tombe di migranti cammina Carmen, donna che ha conosciuto la migrazione e il viaggio senza ritorno. Nel suo caso, però, lei è rimasta ad aspettare chi non è più tornato. Lei aspetta il suo CarloAlberto nonostante tutto, sorretta dal suo amore per lui e dalla sua devozione alla Madonna del Carmelo. Ed è proprio in questa attesa, oltre ogni evidenza e oltre ogni speranza, che Carmen inizia il suo racconto intimo. Lì tra le anime dei migranti che “riposano” ad Armo.

L’alfabeto comune di chi conosce la perdita

In quella parte di cimitero i percorsi in mezzo alle tombe sono tracciati come righe con una precisione geometrica. Tutte allo stesso livello del terreno come a rappresentare l’assoluta uguaglianza dinnanzi alla morte. Non vi è stata e non vi è, invece, uguaglianza nella vita. Proprio tra quelle tombe, lungo quelle righe, si dipana a ritroso la sua vita semplice, segnata da una partenza piena di aspettative e da una perseveranza che cerca e trova sponda nei morti che hanno la pazienza di ascoltare. Un’attesa che culmina nella negazione di una verità insostenibile. Un’attesa piena di amore e compassione, sentimenti forti che trasudano dal nome di un luogo (Armo) che, privato di una sola consonante, diventa un’ardente e assoluta dichiarazione di devozione e fedeltà (Amo).

Ha debuttato, nell’ambito della rassegna culturale Esistenze 2024, nel teatro allestito presso la sede (un bene confiscato) dell’associazione Antigone – Osservatorio sulla ‘ndrangheta, lo spettacolo A(r)mo. Nato dalla collaborazione tra Ucrìu compagnia teatrale e teatro Proskenion, è stato scritto da Tiziana Bianca Calabrò ed è interpretato da Renata Falcone, con la regia di Basilio Musolino e i costumi di Alessia Farotti.

Dopo il sold out delle prime rappresentazioni, saranno presto programmate altre repliche di questo spettacolo in evoluzione. Altri momenti in compagnia di Carmen che ancora aspetta, cerca e si cerca, camminando tra le tombe. Parla con chi non conoscerà mai. Le sue parole, tuttavia, non cadono nel vuoto. In quel luogo tutto esiste, tranne il vuoto. Subito l’atmosfera diventa intima e familiare perché Carmen conosce quello strappo, convivendo con lo stato d’animo di chi ha visto la persona amata non tornare.

Conosce l’alfabeto della perdita di quell’addio che non smette di decantare, di attraversare l’anima da parte a parte. Un alfabeto al quale Renata Falcone lascia articolare parole anche attraverso la gestualità, la sua interazione essenziale con gli elementi di scena. È tutto il suo corpo ad aspettare e a cercare, prima che a parlare.

Parole e corpi come semi nella terra

Le sue parole diventano semi in quella terra in cui i corpi sono radicati. Tombe piantate a terra come quei bastoncini alti, lunghi e leggeri. Scossi dalla vita che si infrange sulle onde di un destino impietoso, traballanti su quella scena nuda quasi a rappresentare la fugacità di una condizione capace, tuttavia, di andare oltre, di resistere, di sopravvivere.

Essi appaiono fragili ma invece sono inesorabili nella loro ostinazione. Pur dopo il violento scuotimento, tornano nella posizione eretta. Non si abbattono. Le radici li sostengono e tornano eretti e leggeri, ancora pronti a subire l’assalto della tempesta e la violenza dei naufragi.

E mentre la storia fluisce su quel palco adornato di sole margherite, quelle parole raggiungono il pubblico che con lei si ritrova tra quelle anime il cui nome è sepolto, come le loro storie. E allora cosa resta? Resta Carmen che aspetta e che, come Renata Falcone, cerca e cerca ancora. In quel luogo così assoluto, radicale e speciale, che è il cimitero di Armo, non cerca solo il senso della sua esistenza segnata dall’assenza.

Unita a quelle anime, in quella ricerca di ascolto e sopravvivenza alla perdita che diventa corale, loro stesse raccontano di avere perso tutto. Con il diritto di vivere, anche quello di sopravvivere nella preghiera e nella memoria. La scrittura di Tiziana Calabrò si conferma capace di andare in profondità, di raggiungere l’abisso, esplorarlo e riemergere con tutto il portato emotivo attraversato. La sua drammaturgia resta fedele al tragico che scandaglia ma si apre alla speranza e alla possibilità/necessità di un cambiamento.

Il racconto di vita di Carmen nel cimitero silente dei migranti

«In questo spettacolo sono tanti i piani narrativi: la povertà, la migranza, l’ingiustizia, la dimenticanza e c’è il diritto alla sepoltura dignitosa, a un luogo in cui poter essere pianti da chi resta. Armo racchiude tutti questi drammi. Carmen – spiega Tiziana Bianca Calabrò, autrice dello spettacoloè una donna anziana che ad una tomba senza nome dà il nome del suo amato CarloAlberto, iniziando a raccontare la sua vita popolata da fantasmi che con lei iniziano a popolare quel luogo muto e silente.

Come in un paradosso esistenziale, i morti sono come confortati dalla sua vita, dalla sua presenza che parla in quel silenzio insondabile. Proprio Carmen sottolinea il legame tra nomi e la poesia. Chi morendo perde anche il suo nome, perché non c’è alcuno che possa ricordarlo, ad Armo trova comunque un luogo in cui non smettere, nonostante il destino infausto, di essere stata una persona. Per questo Armo ci ha ispirato.

Il cimitero è un simbolo della cura e del rito della morte, dell’importanza che dà dignità almeno nella morte a chi se ne va da solo in mare. Carmen ad un certo punto dice “Nessuno ti salva se non hai un nome”. Il dramma nel dramma è proprio questo: noi non vediamo la tragedia di queste morti quotidiane in mare e non è solo un fatto di narrazioni distorte ma è anche una tendenza di non vedere, di non accogliere ciò che sentiamo non nostro. Invece la persona migrante ci appartiene in quanto esseri umani, in quanto umanità. La storia di chi migra è impietosa e si ripete. A cambiare sono solo le geografie e i volti. Siamo stati e siamo tutti migranti. Riconoscerlo e ricordarlo equivale a salvare la nostra umanità.

Carmen incarna la storia nella storia. Abbiamo, infatti, bisogno di raccontare delle storie minute, quelle piccole e apparentemente ininfluenti per vedere il dolore immenso e autentico della storia. Ho sentito l’urgenza di raccontare questo bisogno che abbiamo di capire e di non voltarci dall’altra parte. Siamo tutti legati perché questo siamo: intrecci di vite intessute da un’unica grande storia». Così Tiziana Bianca Calabrò, avvocata con la passione per la scrittura, autrice dello spettacolo.

Carmen una donna che aspetta, cercando


«Carmen è per me e con me una donna che aspetta. Una donna che cerca mentre aspetta, cerca e cerca ancora. Intanto attraverso di lei vivono il ricordo, la memoria, l’amore, la giovinezza. Di fatto cerca tutto quello che le è stato portato via e lo fa con chi ha subito, seppure in modo diverso, la stessa inarrestabile perdita ossia i migranti. Anche a loro sono stati portati via la vita, la storia, la memoria, ad alcuni anche la possibilità di essere ancora chiamati nella preghiera per nome.

Sulla scena mi sento come dentro il mare, trasportata dalle onde. Perchè la vita è fluttuante: oggi ci teniamo su e domani siamo buttati giù.

Carmen insieme ai migranti, in questo mare, rivive i momenti più importanti della sua vita, alimentando un filo che li unisce. Lo sono persone che hanno perduto tutto. Una condizione di dolore umana che non conosce nazionalità. Carmen con la sua semplicità disarma tutti e abbatte ogni paletto, riportandoci, al di là della nazionalità, nella dimensione universale, tale anche oltre la vita, di persone». Così l’attrice Renata Falcone.

La necessità di portarlo in scena e di esserci

 «Questo spettacolo parla di esseri umani e di storie di vita. Ci sono il dolore, il rammarico ma in fondo c’è anche la gioia che nasce dalla speranza. Spero che al pubblico arrivino tutte le emozioni che abbiamo provato noi. Non è il primo lavoro che condivido con Tiziana e Renata. Quando Tiziana mi ha proposto il testo, dopo averlo letto non ho avuto dubbi che fosse necessario portarlo in scena. Ho avuto subito anche un’altra certezza. Avrei voluto fare parte di questa storia e di questa esperienza così intensa». Così conclude il regista Basilio Musolino.

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