La squadra di doganieri “infedeli” al Porto di Gioia si vantava dei ruoli nell’organizzazione criminale: «Compà non per farmi bello ma ci sono anche io»
Avevano messo a punto un sistema per superare i controlli e far entrare la cocaina. Un modus operandi che per la Procura era «consolidato» nel tempo
Un fiume di materiale tra intercettazioni, documenti e conversazioni ha consentito «di ritenere acclarati i gravi indizi di colpevolezza». La Procura della Repubblica – Direzione Distrettuale Antimafia, guidata da Giovanni Bombardieri ha posto sotto la lente d’ingrandimento con indagini capillari la «squadra» di «doganieri infedeli». Hanno consentito di far entrare al Porto di Gioia Tauro quantità ingenti di cocaina.
Mario Giuseppe Solano e Mario Pititto sono i funzionari dell’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli in servizio all’Ufficio delle Dogane di Gioia Tauro finiti in manette. E l’indagato Pasquale Sergio insieme agli altri indagati sarebbero coinvolti in un traffico internazionale di sostanze stupefacenti aggravato dalla finalità di agevolare la ‘ndrangheta. Le misure disposte dal Gip presso il Tribunale di Reggio Calabria, dopo aver raccolto materiale sufficiente a comprendere l’attività che i doganieri avrebbero svolto per favorire l’organizzazione di narcotrafficanti.
Altri 36 indagati sono già stati coinvolti in una prima indagine. Disvelata l’esistenza ed operosità, in Gioia Tauro, di un gruppo nutrito di soggetti. Il quale «assolutamente ben organizzato, sfruttando l’attività lavorativa svolta dai portuali infedeli all’interno del porto, era dedito con sistematicità all’importazione ed esfiltrazione di ingenti quantitativi di sostanza stupefacente del tipo cocaina. Giunti nello scalo marittimo gioiese dall’America latina, occultati all’interno dei containers sistemati sulle navi cargo. Venivano prelevati dai sodali, portati fuori dalla zona portuale e consegnati alle diverse organizzazioni criminali committenti».
L’organizzazione
Erano ben organizzati. Ognuno con un ruolo specifico. Una macchina ben oliata che nel tempo ha consolidato una sorta di prassi. Dove «ognuno con i propri ruoli, contribuiva efficacemente alla riuscita delle operazioni occupandosi di accertare i tempi di sbarco della nave, di individuare i containers di uscita per il trasporto dello stupefacente fuori dal sedime portuale, di contraffare i sigilli per agevolare le operazioni di esiltrazione, di prelevare materialmente la droga».
Come rilevato dal Giudice, l’indagine costituiva un “salto di qualità” nella comprensione delle dinamiche criminali che ruotano intorno alle importazioni di cocaina nel Porto di Gioia Tauro. Per la Procura, infatti, in passato è già stato accertato giudizialmente il coinvolgimento nei traffici di stupefacente di alcuni portuali “infedeli”. In questa circostanza «per la prima volta emergeva l’esistenza di un “vero e proprio sistema criminale operante presso lo scalo marittimo gioiese. Variamente composito ed articolato su più livelli, con una non comune capacità di movimentare poderosi carichi di cocaina, per conto proprio o su mandato di altre organizzazioni, potendo contare sull’apporto decisivo di un’intera “squadra” di portuali infedeli e su una serie allarmante di appoggi «all’interno degli uffici dell’amministrazione portuale doganale».
Questa ulteriore indagine ha consentito alla Procura chiarire come i rapporti fra l’associazione criminale ed i doganieri fossero «tutt’altro che fugaci ed isolati. Limitati cioè a singoli episodi. Emerge, invece, una cointeressenza criminale stabile. In cui la disponibilità di alcuni membri dell’ufficio Dogane di Gioia Tauro a prestarsi ai desiderata degli “esfiltrator”” appariva costante e pressoché scontata».
Le intercettazioni
L’esistenza di una “squadra doganale” al servizio dell’associazione è stata «disvelata» già da una conversazione intercorsa via chat nel 2020. Quello preso in considerazione era un periodo di «frenetica vitalità del costituto associativo». In quella chat Nazareno Valente, operaio portuale già coinvolto nell’indagine precedente, alla domanda del proprio interlocutore circa l’impiego nei traffici di appartenenti all’Agenzia delle Dogane (“Sai che mi hanno detto che c’è una squadra che ha i doganieri in mano è possibile”).
Non soltanto dava conferma della presenza dei doganieri infedeli ma forniva anche delucidazioni circa il funzionamento del canale corruttivo. “Compa è vero la squadra è quella che ci sono io e non ve lo dico x farmi bello ma è vero se volete parliamo. Ma non ci pensate che fanno miracoli. Se arriva bloccato come vip normale lo passano allo scanner e c’è possibilità che c’è lo sbloccano. Se invece arriva che so come super rifer che ha due X di dove l’anno controllato prima non c’è speranza”».
Metodi di “esfiltrazione”
Cosi, per portare a termine le importazioni, ecco che i funzionari doganali si adoperavano per essere presenti nei turni di servizio scanner. Si facevano delegare appositamente per le visite merci, all’occorrenza si prestavano anche a svolgere attività a loro poco congeniali. Come quella della scansione radiogena che aveva fatto il Pititto in sostituzione del Sergio nell’ottobre 2022. Comunque alteravano gli esiti dei controlli ovvero, quando impossibile, allertavano i sodali delle attività di P.G. controllate che ne avrebbero potuto svelare le responsabilità penali.
Ognuno con il proprio ruolo. Più di rilievo quello del Solano a cui era «demandato il compito di reclutare i complici fidati Sergio/Pititto, i predetti indagati agivano nell’interesse esclusivo di quella “casa” (la compagine criminale) che garantiva loro lauti profitti. La squadra doganale era costantemente al servizio del gruppo. Giungendo ad essere sbandierata con vanto dalla compagine criminale che, contando sui controlli alterati e sulle compiacenti omissioni, prometteva agli esportatori sudamericani la riuscita delle operazioni».
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