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A Locri il 20 marzo 1989 l’omicidio di Vincenzo Grasso, la figlia Stefania: «La memoria ci sostiene»

La primogenita del commerciante ucciso da ignoti 34 anni fa nel reggino racconta la storia di suo padre. Oggi e domani a Milano con Libera e don Ciotti per ricordare tutte le vittime innocenti

A Locri il 20 marzo 1989 l’omicidio di Vincenzo Grasso, la figlia Stefania: «La memoria ci sostiene»

«Ci manchi. Sei sempre con noi». La dolorosa assenza e la dolce presenza convivono quando un marito, un padre viene violentemente strappato alla sua famiglia. Nel giorno della festa del papà, anche il giorno che ha preceduto il 34esimo anniversario del tragico distacco, Stefania Grasso avrebbe voluto dire questo a suo padre Vincenzo, che tutti chiamavano Cecè. Una straordinaria normalità la sua. Marito e un padre amorevole, un imprenditore integro, un calabrese perbene e innamorato della sua terra che il 20 marzo 1989 fu raggiunto mortalmente da alcuni colpi di pistola a Locri. A sparare fu una mano ancora oggi sconosciuta. Vincenzo Grasso aveva 51 anni.

Come nel 1989

«La sequenza dei giorni di quest’anno è esattamente corrispondente. Per la domenica della festa del papà, e nel 1989 anche domenica delle Palme, ero scesa da Firenze dove studiavo Economia. Mio padre era venuto a prendermi, come sempre, alla stazione. E come sempre sorrideva mentre mi aspettava. Così i miei occhi continuano a ricordarlo. Non ho voluto vederlo dopo l’agguato. Mio padre è vivo, sorride e mi aspetta alla stazione. Per questo non riesco più a prendere un treno. Lo prendo solo se costretta», racconta Stefania Grasso.

Solo 18 anni

«Quell’immagine è lì ferma ed è come se non volessi rivivere la scena senza che lui possa realmente essere lì ad aspettarmi e a sorridermi. Nel mio ricordo lui c’è e così continuerà a essere. Lo avuto solo per 18 anni ma sono bastati perché restasse per sempre e non andasse mai via. Lui è sempre con me. Con me, con noi ancora crede nella giustizia», racconta ancora Stefania ancora oggi attiva nel mondo scout oltre che in Libera. E intanto ricorda anche quella sera del 20 marzo in cui lo salutò prima di raggiungere i suoi fratelli. Non sapeva che quella sarebbe stata l’ultima volta in cui lo avrebbe visto.

«Mio padre non pagava e denunciava»

Marito di Angela e padre di Stefania e dei gemelli Fabio e Francesco, Vincenzo Grasso aveva ben avviato la sua concessionaria nel settore automobilistico e nautico, dopo l’esperienza da titolare di un’officina ad Ardore. Tra famiglia e lavoro si svolgeva la sua vita. Un’esistenza dedita ai figli, affinché potessero studiare, e alla moglie. Con il suo coraggio e la sua determinazione, Vincenzo era anche divenuto un ostacolo per ‘ndrangheta perché non pagava, non cedeva alle richieste estorsive. Era un pericolo perché denunciava.

Così erano iniziate le intimidazioni, gli spari contro le saracinesche e le minacce telefoniche. Stefania aveva 14 anni quando le era capitato di rispondere a una di quelle telefonate. Con suo padre era andata a denunciare. Recuperando delle carte relative al fascicolo di suo padre, ha ripercorso anche quel momento, in cui tutto era apparso chiaro.

La denuncia con il padre

«Certe esperienze non si dimenticano. Dall’altro capo del telefono una voce chiara minacciava di morte mio padre se non avesse pagato. Oggi quelle chiamate non sarebbero state delle registrazioni su un nastro dalle quali sarebbe stato pressoché impossibile, come infatti fu per la vicenda di mio padre, risalire a chi ci fosse all’altro capo del telefono, Oggi attraverso le intercettazioni si sarebbe stati in grado di rivelare tutto di quella telefonata», racconta Stefania che ricorderà il padre con le altre vittime innocenti di mafia in occasione della giornata nazionale della Memoria e dell’Impegno promossa da Libera, Nomi e numeri contro le mafie in programma domani a Milano.

«Irrinunciabile credere e attendere giustizia»

Stefania instancabilmente testimonia anche nella Locride. Al suo fianco Deborah Cartisano, la figlia di Adolfo detto Lollò, fotografo di Bovalino sequestrato e ucciso a scopo estorsivo nel 1993. Testimonia nonostante nessuna giustizia sia stata fatta per suo padre. Crede nella condivisione della storia del padre, nonostante quel delitto sia oggi ancora impunito.

«Dobbiamo testimoniare con la stessa costanza con la quale attendiamo giustizia. Io, mia madre e miei fratelli crederemo sempre che la giustizia e la verità siano valori irrinunciabili. Lo Stato c’è, nonostante tutto. È fatto di persone che sbagliano ma anche soprattutto di persone che scelgono di servire la collettività rischiando anche la vita. Ecco perché non si può non avere stima e rispetto. Quando una verità rimane nascosta e la giustizia negata la responsabilità è sempre diffusa.

È anche la società civile a dovere fare delle scelte chiare. La memoria contribuisce a questo cammino e fondamentale sarebbe anche il rafforzamento dello stato sociale in chiave preventiva del fenomeno mafioso. Noi ci crediamo e lo facciamo per Vincenzo, Gabriele e Marco, i nipoti che non hanno mai potuto conoscere il loro nonno. Sappiamo quanto difficile sia, quanto complesso sia. Ma ciò non vuole dire che sia impossibile. Non possiamo rinunciare e non rinunceremo. Farlo equivarrebbe a smettere di credere, a smettere di contribuire al cambiamento», ribadisce Stefania Grasso.

Le indagini e l’archiviazione

«Le indagini per la morte di papà iniziarono subito dopo la sua morte. Lui aveva fornito elementi di fatto ma non aveva potuto fornire, non conoscendola, l’identità di chi lo minacciasse. Le sue denunce erano circostanziate ma contro ignoti. Contro ignoti: questo non potrà mai rappresentare un capitolo chiuso per noi familiari privati di un affetto così essenziale. Il decreto di archiviazione, infatti, riferisce di una chiara matrice mafiosa ma dell’impossibilità di individuare con certezza mandanti ed esecutori», racconta Stefania.

Il ritorno in Calabria per stringersi alla famiglia

«Furono anni molto duri per la mia famiglia. Dopo l’uccisione di mio padre, decisi di tornare in Calabria e trasferì i miei studi a Messina. Volevo stare con i miei fratelli e con mia madre, che tanta forza ha avuto per tutti noi figli. Volevo lasciarmi abbracciare da tutta la mia famiglia, dai fratelli e dalle sorelle di mio padre e dai miei cugini, che sono stati e sono per me come altri fratelli e sorelle. Zio Giuseppe (Pepè), il primo dei fratelli di papà ancora oggi è per me un riferimento, zio Ottavio e zio Attilio che ho già perso anni fa. Loro sono stati per me figure paterne. Un grande dono nella mia vita, come anche i parenti di mamma che stanno in Puglia. Quella domenica 19 marzo 1989, eravamo tutti a pranzo a casa di mio zio Pepè. Una giornata di festa e di gioia. I legami familiari in Calabria sono anche genuini, come era ed è quello della mia famiglia», racconta ancora Stefania Grasso.

La medaglia al Valore civile nel 1997

«Commerciante impegnato nella lotta contro la criminalità organizzata, benché consapevole del rischio cui si esponeva, si opponeva tenacemente a una lunga serie di intimidazioni e di pressanti richieste estorsive. Per tale coraggioso atteggiamento e inflessibile rigore morale rimaneva vittima di un vile attentato. Nobile esempio di ribellione alla violenza criminale, nonché di elette virtù civiche, spinte sino all’estremo sacrificio», questa la motivazione della medaglia d’oro al Valore civile conferita nel 1997.  

L’ultima sera d’inverno

Vincenzo Grasso non avrebbe mai ceduto, convinto come era che bisognasse essere onesti, integri e coraggiosi per determinare il cambiamento, squarciare quella coltre di paura e costruire futuro. Lo aveva anche scritto ad Enzo Biagi in un lettera datata 1987. «Nel nostro paese si vive sotto una cappa di paura e io denuncio per costruire un cambiamento, una vita migliore non tanto per me ma per i miei figli».

Vincenzo Grasso fu ucciso l’ultima sera di inverno del 1989 a colpi di arma da fuoco. «Amava troppo questa terra per non ribellarsi a chi la teneva prigioniera e sotto scacco. A coloro che ne avrebbero impedito la crescita e lo sviluppo», conclude Stefania.

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