L’insostenibile bellezza dell’esserci e quel fiore sulla spiaggia di Cutro
Il viaggio e tutte le emozioni che restano attaccate al luogo: una ferita aperta dalla quale non possiamo sentirci assolti
È leggermente agitato il mare di Steccato di Cutro. Lo guardi e non vedi le ferite di quel naufragio avvenuto a un passo dalla salvezza. Le onde si rincorrono, sovrascrivono il manto d’acqua con il loro moto infaticabile, sembrano non lasciare segni. Ma è davvero così?
Il mare incontra il cielo all’orizzonte, laddove l’occhio si perde. La spiaggia è desolata, attraversata da una bellezza selvaggia e primitiva. Il silenzio è rotto dalla brezza e dalla voce delle onde che con essa si intreccia. Tra la sabbia, le tracce lasciate dalle mareggiate che, in uno scambio incessante, prendono e restituiscono. Ci sono tronchi e rami che nel tempo diventano tratti peculiari di questo paesaggio che invita ad essere battuto nel silenzio dei propri passi. Un silenzio che consente l’ascolto. Un silenzio nel quale tutto si rivela. Tutto.
Un nastro bianco rifulge sulla sabbia tra quanto il mare rilascia e rimescola. A guardarlo da vicino, esso è ancora stretto con un fiocco attorno a un fiore ormai essiccatosi al sole. Un fiore che giace lì, a qualche metro dalla battigia. Quel fiore, al di là delle apparenze, è vivo. Raccolto e deposto da qualcuno, settimane fa, su quella spiaggia per rendere omaggio alle vittime del naufragio delle nostre coscienze, esso giace ed evoca. Lo fa ancora adesso.
A diverse centinaia di metri dal quel tratto di spiaggia calabrese, in questo momento dell’anno desolato, da due mesi un dramma infinito continua a consumarsi. L’umanità continua a naufragare con le decine di migranti che, viaggiando a bordo di un caicco turco andato in frantumi a qualche centinaio di metri dalla riva, non sono sopravvissute. Era la notte tra il 25 e il 26 febbraio e la spiaggia dove hanno trovato approdo i sopravvissuti e i cadaveri, è stato proprio questa di Steccato di Cutro.
Il dramma umano
Madri, padri, fratelli, sorelle, figli e figlie che, impotenti, non sono riusciti a salvare dalla morte tra le onde i loro cari. A quel naufragio, sopravvissuta come loro è una possibilità di vita che non sarà mai quella legittimamente sognata.
Un dramma infinito al pensiero del quale forte è la tentazione di chi non lo ha vissuto di sottrarsi. Tale è il senso di sopraffazione emotiva, di impotenza e di dolore senza scampo dentro al petto.
Quel fiore secco vive
Quel fiore, però, tenuto nel proprio sguardo e salvato da una facile e comoda distrazione, non rende possibile questa fuga. E se anche quella spiaggia appare come tante, bella e selvaggia come altre in Calabria, così non è. Non più.
Essa è “bella” ma è ormai anche un luogo del lutto, luogo dell’anima corale e collettivo. Un altare dove pregare, ognuno secondo il proprio sentire. Nell’atlante della nostra storia, un punto di non ritorno per chi non voglia ripiegare la propria esistenza su sé stessa, sottraendola al flusso universale al quale è chiamata.
Le ferite ormai essenziali
Allora forse non è il mare a non portare i segni, ad ingannarci, come si potrebbe pensare. Forse siamo noi che abbiamo bisogno di andare oltre, illudendoci di andare avanti.
Abbiamo bisogno di non rinunciare alla bellezza di questo scenario in cui l’azzurro dorato dal sole separa la sabbia dall’infinito e sterminato. Abbiamo bisogno di preservare la nostra quotidianità dalla morsa della coscienza, di salvare questa bellezza dallo strazio della morte.
Non concepiamo che il dolore che abbia profanato tale bellezza abbia diritto di restare dentro quella stessa bellezza. Non ci rendiamo conto che, nonostante essa non sia più quella di prima, essa non sarà meno di prima. Proprio in quelle ferite, che non sono uno scarto da eliminare, ormai risiede la sua essenza di luogo e la nostra coscienza di persone presenti a loro stesse e alla storia.
Noi in luogo di chi non può più essere salvato
Allora cosa in realtà salviamo di quella bellezza, con questa opera di negazione? Forse noi stessi, visto che non sopportiamo di accettare che a dover essere salvate erano quelle persone che invece non siamo stati in grado salvare.
Così alleniamo l’indifferenza e ci illudiamo che la bellezza selvaggia e primitiva di questa spiaggia possa essere rimasta intatta. Ma non lo è e neanche il mare, a volerlo ascoltare, inganna.
Esso parla. Racconta la voglia di vivere più forte della paura di non farcela, l’epico coraggio di padri e madri per cercare un futuro diverso per i loro figli, denuncia l’innocenza disarmante di bambini che non hanno avuto il diritto di crescere, il silenzio di chi quella terraferma non l’ha raggiunta, di chi la non raggiungerà mai, neppure da morto.
Cutro dopo Lampedusa e Portopalo
Forse, succederà anche a Lampedusa e forse pure a Portopalo in Sicilia. Quegli specchi di mare più estesi in cui le vite di altre centinaia di migranti sono state spezzate dal mare. Erano molto più lontani dalla terraferma ma quella speranza di futuro era ed è la stessa.
Ma è stato il mare ad avere spezzato quelle vite, inghiottendole nei suoi abissi? È il mare con le sue onde a non restituire dignità ai corpi che non ha ancora portato alla riva? Ne siamo davvero certi?
L’illusione e il sogno
I carnefici che lucrano su questo aberrante traffico si nutrono in primo luogo della “scelta obbligata” per queste persone di lasciare il proprio paese di origine a qualunque costo. Una “scelta obbligata” alla quale si tollera che siano destinate milioni di persone in questo momento nel mondo.
Una “scelta obbligata” che ancora non interroga abbastanza tutti i Governi e tutte le Coscienze che non ingannino loro stesse, che non cedano alla tentazione di trovare conforto nell’illusione che tutto sia normale e tollerabile.
In fondo, al mare non si comanda. In fondo sono loro a “scegliere” di partire.
Optare per questo vile conforto equivale a rinunciare a seguire il sogno di un mondo in cui non vi debbano essere genitori costretti a questo viaggio per e con i loro figli; non vi siano bambini “costretti” a rischiare di non sopravvivere per potere vivere; non vi siano persone costrette a non poter scegliere di restare.
Un sogno senza il quale nessun futuro è possibile. Ma forse è proprio al futuro che si è rinunciato, al prezzo di una prospettiva molto più breve e miope di quanto oggi si sia in grado ammettere.
Il mare alleato della Coscienza
E allora non è il mare a ingannare. Esso invece porta il peso con l’umanità che non cede alla tentazione di normalizzare e tollerare.
Esso rivela ogni istante in tutto ciò che custodisce, che restituisce o che non lascia tornare alla riva.
In tutto ciò che lascia sulla terraferma, altra testimone potente per chi risponda al richiamo della propria coscienza, per chi scelga la straordinaria complessità di un sogno piuttosto che l’ipocrisia di una illusione facile e comoda, ma anch’essa senza scampo.
Un sogno che la realtà scaraventa sempre più lontano da noi, ma che resta l’unico in cui tutti saremmo salvi. Nel corpo e nella coscienza.
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