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Sea Eye 4 “fermata” al porto di Reggio, l’equipaggio: «Siamo intervenuti perché il centro di soccorso libico non rispondeva»

L'equipaggio racconta le fasi concitate dei soccorsi per i quali è accusata di aver violato il decreto Piantedosi. Ieri il nulla osta per lasciare la città calabrese ed essere sottoposta a manutenzione a Taranto

Sea Eye 4 “fermata” al porto di Reggio, l’equipaggio: «Siamo intervenuti perché il centro di soccorso libico non rispondeva»

È arrivato nella giornata di ieri il nulla osta per lasciare il porto di Reggio Calabria. La Sea Eye 4, sottoposta a sequestro per violazione del decreto Piantedosi, lo scorso 10 marzo dopo lo sbarco di 144 migranti, tra i quali anche neonati e minori non accompagnati, ha lasciato la città calabrese.

Si tratta di un’autorizzazione concessa dalla Capitaneria di Porto per consentire alla nave della ong tedesca di raggiungere i cantieri navali di Taranto per le attività di manutenzione necessaria. Il sequestro di 60 giorni per recidiva è, però, ancora vigente. Dunque, la nave non può ancora tornare a soccorrere in mare.  

L’ong ha presentato il ricorso avverso la misura. Intende provare che il suo intervento è avvenuto nel rispetto delle norme internazionali e che le guardie libiche avevano puntato armi invece di intraprendere azioni di soccorso. 

Mentre la nave si preparava a lasciare il porto di Reggio Calabria con direzione Taranto, ieri pomeriggio il cuoco a bordo della nave Sea Eye 4, in missione circa due mesi, Gustav Gross, è intervenuto all’incontro “Fermi in porto, i costi umanitari”. Promossa dalla sezione Anpi Ruggero Condò di Reggio Calabria e dal “Centro di Cultura Sociale Francesco Misiano”, l’iniziativa è stata introdotta da Maria Lucia Parisi e Maurizio Panzera.

Per conto dell’equipaggio, durante le ultime ore trascorse al porto di Reggio, l’ufficio stampa della Ong tedesca, ha risposto alle nostre domande. Ecco il racconto delle fasi concitate dei soccorsi per i quali la Sea Eye è accusata di aver violato il decreto Piantedosi.

Come si sono svolte le attività di soccorso che hanno preceduto l’arrivo nel porto di Reggio Calabria e il fermo?

«Partiti dalla Sicilia, il 29 febbraio, ci siamo diretti verso la nostra area operativa, a circa 60 miglia nautiche dalla costa libica, che normalmente pattugliamo finché non riceviamo informazioni sulle imbarcazioni in pericolo. Collaboriamo con diverse autorità. Il 7 marzo scorso abbiamo ricevuto informazioni su un’imbarcazione in pericolo nella zona Sar libica. Abbiamo immediatamente allertato il Centro libico di coordinamento dei soccorsi (Lyjrcc), avvisando anche i Centri coordinamento soccorso marittimo maltese e italiano.

Non abbiamo ricevuto alcuna risposta. Non sapevamo, dunque, se l’assistenza sarebbe stata prestata o meno. Pertanto abbiamo adempiuto ai nostri obblighi ai sensi della normativa internazionale e del diritto marittimo, prestando assistenza e soccorrendo le persone in pericolo (articolo 98 dell’Unclos Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare).

Abbiamo individuato la barca: un gommone inadatto alla navigazione e sovraffollato, con in maggioranza donne e bambini a bordo. C’erano 4 neonati e 8 bambini di età inferiore ai 10 anni. Nessuna delle persone a bordo indossava giubbotti di salvataggio. In forza del nostro obbligo di prestare assistenza alle persone in pericolo, e senza altre navi che nelle vicinanze avrebbero potuto fornire assistenza, abbiamo distribuito giubbotti di salvataggio a tutti. Poi abbiamo iniziato a imbarcare persone sulla Sea Eye 4».

L’arrivo dei libici e le armi puntate contro

«Nel bel mezzo della nostra operazione, due navi della Guardia costiera libica si sono avvicinate a una velocità estremamente pericolosa, fermandosi a soli 200 metri da noi. Hanno immediatamente minacciato il nostro equipaggio puntando contro le loro armi. Ciò ha messo ulteriormente a rischio la vita delle persone che stavamo soccorrendo.

Siamo, comunque, riusciti a portare a termine la nostra operazione e a imbarcare sulla Sea Eye 4 in sicurezza tutto il resto delle persone presenti sul gommone. Le famiglie si sono riunite e ci siamo mossi alla volta dell’Italia e di un porto sicuro. Mentre eravamo già in viaggio, abbiamo ricevuto un’altra chiamata di soccorso per un’imbarcazione in pericolo nelle nostre vicinanze. Poiché eravamo l‘unico asset operativo in tutto il Mar Mediterraneo in quel momento, abbiamo offerto la nostra assistenza al Centro di soccorso marittimo italiano. Esso ci ha ordinato di deviare la rotta e di dirigerci verso l’imbarcazione in difficoltà per effettuare una prima valutazione».

Il secondo soccorso

«Dopo ore passate a cercare la barca, è arrivata la notte. Le condizioni del mare peggioravano e la nostra speranza di trovarla scemava. Ma ad un certo punto, nel buio della notte, abbiamo notato un tremolio di luce all’orizzonte. Abbiamo lanciato subito il nostro motoscafo per una prima valutazione. Era una barca di legno a due piani inadatta alla navigazione, estremamente sovraffollata, a rischio di ribaltamento. Nessuno indossava i giubbotti di salvataggio. Le condizioni del mare rendevano molto difficile il trasbordo delle persone sul nostro motoscafo.

Eravamo pronti ad utilizzare tutta la nostra attrezzatura in caso di ribaltamento della barca. Era buio pesto. Dopo due ore di lavoro incessante, trasferendo le persone dalla barca di legno al motoscafo e sulla Sea Eye 4, le abbiamo messe tutte in salvo. Tutti erano estremamente deboli, in viaggio su quella barca di legno almeno da due giorni. Una persona è stata immediatamente ricoverata nel nostro ospedale, in condizioni molto critiche. Era in pericolo di vita a causa dell’inalazione di carburante. Abbiamo organizzato un’evacuazione medica con le autorità italiane e noi abbiamo continuato la navigazione verso il porto sicuro, in Italia». 

Perché è importante che le Ong continuino a praticare il salvataggio in mare?  

«Nel 2024 (al 28 febbraio 2024) almeno 220 persone sono morte durante la fuga attraverso il Mediterraneo. Dal 2014, circa 29.098 rifugiati sono annegati nel Mediterraneo. Nel 2016, oltre 5mila persone morirono viaggiando via mare verso l’Europa. Non c’è molto altro da dire. (https://de.statista.com/statistik/daten/studie/892249/umfrage/immittelmeer-ertrunkenen-fluechtlinge/). Se non ci fossero le organizzazioni di soccorso, probabilmente non ci sarebbe nessuno a raccontare tutto questo». 

Cosa pensate del decreto Piantedosi e delle leggi italiane?

«Il decreto Piantedosi ci vieta di effettuare più salvataggi, anche in caso di più situazioni in cui sia necessario intervenire. Siamo costretti a navigare verso nord lasciando le persone in difficoltà in mare, contravvenendo all’obbligo di diritto internazionale di salvare le persone in difficoltà. Lasciare naufraghi in mare è illegale. Il decreto ci impone la navigazione verso un porto lontano al Nord, senza alcuna ragione apparente (visto che ci sono persone competenti centri migratori del Sud). Ci costringe a sguarnire il mar mediterraneo/zona di operazione per almeno 8-10 giorni, lasciando un grande vuoto nei soccorsi.

Dobbiamo seguire le istruzioni della cosiddetta Guardia costiera libica, che abbiamo visto respingere con la forza le persone, esercitare violenza e minaccia contro il nostro equipaggio, che sappiamo essere affiliati alla milizia Libica. Il decreto Piantedosi viola chiaramente il diritto marittimo e internazionale che afferma che le barche e le persone in pericolo devono essere soccorse. Si tratta di un obbligo previsto dalla Solas (Convenzione internazionale per la sicurezza della vita in mare).

Quando l’autorità di coordinamento non risponde e non coordina, non è più responsabile del salvataggio. Ci troviamo così intrappolati tra il diritto internazionale e il diritto marittimo, tra l’obbligo di salvare vite umane in pericolo in mare e il rischio di detenzione e multe che ci attende, quando adempiamo a quello stesso obbligo. È una vergogna che un’organizzazione umanitaria venga punita per aver svolto attività salvavita, per l’incapacità delle autorità responsabili di coordinare efficacemente le attività di soccorso».

Come guardate al contesto europeo? 

«Dal nostro punto di vista il decreto Piantedosi viola chiaramente le leggi internazionali e i fondamentali umani diritti. Che gli altri Stati europei permettano al governo italiano di violare questi diritti è altrettanto pericoloso e preoccupante. Bisogna, infatti, chiaramente dire anche che gli stati europei lasciano l’Italia sola sul tema dell’immigrazione nel Mar Mediterraneo.

Non dovremmo, pertanto, concentrare l’attenzione sulle autorità italiane, ma anche su quelle degli altri stati europei che sostengono e finanziano direttamente la cosiddetta Guardia costiera libica, nota per essere affiliata ai gruppi della milizia libica, fornendo navi e attrezzature per la sorvegliare dell’area e per riportare forzatamente indietro i migranti in Libia. Questo paese è un luogo in cui i migranti subiscono sistematicamente abusi diffusi, tortura, detenzione arbitraria, lavoro forzato e violenza sessuale». 

Il vostro mezzo è stato fermato per 60 giorni. Quali azioni avete intrapreso?  

«Abbiamo già presentato ricorso contro questo provvedimento. Questa volta siamo stati arrestati ai sensi del decreto Piantedosi per la cosiddetta “inosservanza” delle istruzioni dell’autorità di coordinamento nella zona Sar libica, il Centro libico dei soccorsi congiunti.

La verità è, però, che abbiamo informato il Centro libico di coordinamento dei soccorsi congiunti con la posizione e le informazioni sull’emergenza in atto. Senza risposta alle nostre e-mail e senza sapere se sarebbero intervenuti, siamo andati noi a soccorrere le persone in difficoltà, informando le autorità maltesi e quelle italiane.

Non avendo il Centro libico di coordinamento assunto la responsabilità di soccorsi, lo abbiamo fatto noi in osservanza dell’obbligo internazionale di intervenire. Le autorità libiche sono arrivate durante i soccorsi, minacciando l’equipaggio con le armi e dimostrando che non avrebbero completato il salvataggio in modo sicuro, quindi abbiamo continuato a farlo noi. Questo spiegheremo alle autorità competenti per il giudizio».    

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