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La storia del giudice Rosario Livatino nella mostra Sub tutela Dei: dopo Polistena tappe anche a Melito e a Reggio

Curata da Libera associazione Forense, centro studi Livatino, centro culturale Il Sentiero di Palermo e Meeting Mostre, l'esposizione è promossa dal Csv dei Due mari e resterà nel reggino fino al 30 gennaio 2024

La storia del giudice Rosario Livatino nella mostra Sub tutela Dei: dopo Polistena tappe anche a Melito e a Reggio

Il centro servizi per il Volontariato dei Due Mari ets di Reggio Calabria declina i valori del volontariato nel segno della memoria e della legalità. In queste settimane sta promuovendo la mostra dal titolo “Sub Tutela Dei, il Giudice Rosario Livatino”. Curata da Libera associazione Forense, Centro Studi Rosario Livatino, Centro Culturale Il Sentiero di Palermo, essa è promossa da Meeting Mostre.

Il suo viaggio nel reggino è iniziato lo scorso 7 gennaio dal Duomo di Polistena. Da martedì 16 gennaio fino a venerdì 19 gennaio sarà visitabile a Melito di Porto Salvo, presso l’ex Mercato Coperto (ore 10/12 e 16/18). Il tour reggino della mostra, che da mesi gira l’Italia, terminerà a Reggio Calabria, presso la sala Boccioni di palazzo Alvaro. Nella sede della Città Metropolitana, la mostra resterà allestita da martedì 23 a martedì 30 gennaio (da lunedì a venerdì ore 9/18 e sabato ore 9:30/12:30).

«Sub Tutela Dei è una mostra sulla figura e l’opera del giudice Rosario Livatino, ucciso circa 30 anni orsono dalla mafia siciliana. Nella promozione e nella valorizzazione del volontariato non possono non trovare spazio gli ideali di bellezza, verità e giustizia che abitano il cuore dell’uomo. Penso che senza ideali profondamente radicati nel cuore umano anche la legalità, come ogni altra virtù umana, rischi di restare una vuota affermazione.

Rosario Livatino è un testimone credibile e affascinante, perché il suo percorso è quello di un uomo ordinario, che non si è reso protagonista di gesti o opere eccezionali. Per nulla distante dall’esperienza possibile per ciascuno di noi, e meno che meno irraggiungibile per doti o virtù, egli per la fede ha vissuto la sua vita ordinaria in modo straordinario». Così spiega Giuseppe Bognoni, presidente del Csv dei Due mari di Reggio Calabria.

Le giovani guide volontarie

Grazie all’impulso del Csv la mostra anche nel reggino si accompagna ad eventi e momenti di approfondimento gratuiti e aperti al pubblico con il coinvolgimento dei giovani. «Tra i nostri principali obiettivi c’è quello di sensibilizzare le giovani generazioni, attraverso il coinvolgimento e il sano protagonismo. A Polistena, tra le cinquecento persone che hanno visitato la mostra, anche alcune scolaresche. A condurre il pubblico alla scoperta di questa straordinaria figura, altri giovani formati come guide volontarie dal Csv», spiega ancora il presidente del Csv dei Due mari di Reggio Calabria, Giuseppe Bognoni.

La prima tappa reggina a Polistena

«La tappa a Polistena è stata caratterizzata anche da due momenti importanti per la conoscenza del Giudice con il vescovo della diocesi di Oppido Mamertina Palmi, monsignor Giuseppe Alberti, con il parroco del Duomo di Polistena e presidente dell’associazione Il Samaritano, e don Pino Demasi. Hanno partecipato anche il giornalista Toni Mira, autore del libro “Rosario Livatino: il giudice giusto”, e l’ex procuratore di Palmi, Ottavio Sferlazza, che sarà presente anche a Melito Porto Salvo, dove martedì prossimo approderà la mostra, e poi a Reggio Calabria.

Per noi è essenziale per far conoscere sopratutto ai giovani le storie di vita come quella di Rosario Livatino. Esse sono monito per ogni persona affinché si consideri chiamata in causa, in ogni luogo e in ogni tempo, contro l’ingiustizia. È doveroso rendere omaggio alla figura di questo giudice, il quale sapeva che, solo grazie all’esempio, ai giovani poteva essere prospettata una vita diversa». È quanto sottolinea, infine, il presidente del Csv dei Due mari di Reggio Calabria, Giuseppe Bognoni.

L’uomo e il fedele

Rosario Livatino, magistrato siciliano ha operato per tutta la sua carriera nell’agrigentino, è stato ucciso dalla mafia il 21 settembre 1990. Non aveva ancora compiuto 38 anni.  «Quando moriremo, nessuno ci verrà a chiedere quanto siamo stati credenti, ma credibili». Così scriveva nei suoi appunti Rosario LIvatino, un uomo che della sua Fede, del suo rigore e della sua riservatezza aveva fatto i pilastri della sua esistenza.

Beatificato il 9 maggio 2021, pensava che vi fossero tante forme di affrontare il difficile, a tratti terribile, lavoro di giudice. «Vi è quella distaccata e fredda di chi vede nelle tavole processuali solo un informe mucchio di carte che bisogna semplicemente ordinare secondo certe regole. C’è quella di chi scorge in esse invece i drammi umani che vi si celano ed è consapevole di quanto una decisione può lenirli o esasperarli». Lui aveva scelto quest’ultima e l’aveva incarnata con profonda Fede, dedizione, umanità e rettitudine. Virtù che la mafia non perdona. La giustizia era per lui una preghiera, un incondizionato atto d’amore per l’altro.

Il 9 maggio del 1993, Giovanni Paolo II, nel suo memorabile discorso dalla Valle dei Templi di Agrigento in cui invitò i mafiosi a convertirsi, definì Rosario Livatino un “martire della giustizia e indirettamente della fede”. In quello stesso anno, su impulso del vescovo di Agrigento Carmelo Ferraro fu avviato il lavoro di raccolta delle testimonianze. La causa di beatificazione si è conclusa nel 2021.

L’uomo e il giudice

Neppure ventitreenne la laurea cum laude nel 1975. Poi il concorso pubblico e il ruolo di vicedirettore in prova presso l’Ufficio del Registro, negli anni tra il 1977 e il 1979. Entrato in magistratura nel 1978, da subito dimostrò coraggio e arguzia nelle indagini, approfondendo con rigore le relazioni ambigue e perverse tra mafia, imprenditoria e politica. Inizialmente assegnato al tribunale di Caltanissetta, un anno dopo fu assegnato al tribunale di Agrigento dove, dal 1989, divenne giudice a latere. Non ebbe la minima esitazione ad indagare sui finanziamenti regionali sulle cooperative giovanili di Porto Empedocle. Arrivò all’enorme giro di fatture false o gonfiate per opere mai realizzate. Svelò alcuni eclatanti episodi di corruzione della Tangentopoli siciliana, applicando, tra i primi in Italia, la misura della confisca dei beni ai mafiosi.

Il maxi processo alla Stidda Agrigentina

Decisivo, anche per il suo destino, il lavoro investigativo che portò al maxiprocesso contro le cosche di Stidda di Agrigento, Canicattì, Campobello di Licata, Porto Empedocle, Siculiana e Ribera nel 1987. Furono 40 le condanne che colpirono da un’aula bunker allestita in un’ex palestra, la Stidda mafia agrigentina nata per contrapporsi a Cosa nostra e allo strapotere dei Corleonesi.

L’agguato quasi 34 anni fa

Percorreva quei 40 chilometri che separano Canicattì e Agrigento ogni giorno per raggiungere il tribunale, a bordo della sua vecchia Ford Fiesta amaranto.

All’altezza a del viadotto Gasena – oggi intitolato a lui – però il 21 settembre 1990 accadde qualcosa. La sua auto fu affiancata e speronata da un’altra dalla quale furono esplosi alcuni colpi di pistola. Rosario Livatino, ferito alla spalla, tentò invano una fuga nei campi che costeggiavano strada statale 640. I killer lo raggiunsero e lo uccisero.

Un agguato che scosse le coscienze. I colleghi agrigentini Roberto Saieva e Fabio Salomone denunciarono le condizioni difficili in cui i magistrati in trincea contro la mafia erano costretti a lavorare. Condizioni a lungo sottovalutate.

Sul posto arrivarono da Palermo il procuratore Pietro Giammanco e l’aggiunto Giovanni Falcone. Da Marsala, il procuratore Paolo Borsellino.

Come sostituto procuratore presso la Procura di Caltanissetta, proprio l’ex procuratore capo di Palmi, Ottavio Sferlazza, diresse le indagini per l’omicidio del giudice, sostenendo l’accusa in giudizio contro gli esecutori materiali.

I processi

Furono tre i processi. Il primo a testimoniare fu Pietro Nava, un agente di commercio di origini milanesi che passava sul viadotto Gesena per caso e che assistette all’omicidio. La sua testimonianza consentì l’arresto quasi immediato dei due giovani Paolo Amico e Domenico Pace. Organici alla Stidda di Palma di Montechiaro furono condannati entrambi all’ergastolo come esecutori materiali del delitto.

L’altro esponente della Stidda di Palma, Gioacchino Schembri, consenti con la sua collaborazione l’apertura del Livatino bis. Nel 1993 furono arrestati altri componenti del gruppo che aprì il fuoco. Gaetano Puzzangaro (23 anni) Giovanni Avarello (28 anni) furono condannati all’ergastolo. Giuseppe Croce Benvenuto divenne collaboratore.

Il processo Livatino Ter iniziò nel 1997 sulla scia delle dichiarazioni sue e di un altro pentito, Giovanni Calafato. Furono condannati all’ergastolo, con sentenza con fermata in Cassazione, Antonio Gallea e Salvatore Calafato, quali i mandanti dell’omicidio. Furono assolti Salvatore Parla e Giuseppe Montanti.

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