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L’operazione “Res-Tauro”, coordinata dalla Direzione Distrettuale Antimafia, ha disvelato non solo un potente reticolo criminale ancora radicato sul territorio di Gioia Tauro, ma anche un drammatico spaccato dei dissidi interni alla cosca Piromalli, storica e influente famiglia di ‘ndrangheta. Al centro dello scontro, la gestione del patrimonio mafioso in assenza del boss Pino Piromalli, detto “Facciazza”, recluso in regime di 41-bis. La sua detenzione ha aperto una frattura insanabile tra i vertici della consorteria mafiosa, alimentando contrasti familiari, appropriazioni indebite dei proventi illeciti e tensioni con le altre ‘ndrine del territorio. Il controllo capillare delle attività commerciali, la gestione dei rapporti con i detenuti e la capacità di ottenere informazioni riservate sulle indagini rivelano una ‘ndrangheta ancora profondamente strutturata, ma scossa da conflitti interni e ambizioni personali
Il cuore nero della crisi: la famiglia Piromalli divisa dal potere
Le carte dell’indagine restituiscono il volto logorato di un’organizzazione in cui il vuoto lasciato dal capobastone ha favorito l’emergere di tensioni tra fratelli e nipoti. Con la sua autorità ridotta all’impossibilità di incidere direttamente, Pino Piromalli ha più volte lamentato, anche in colloqui con familiari, l’avidità dei fratelli e il tradimento degli accordi fondativi del clan, evidenziando come “mentre io facevo il carcere, voi facevate case”.
L’apertura dei negozi? Solo con il nulla osta della cosca
Le intercettazioni rivelano un sistema ferreo di controllo sulle attività economiche locali. Nessuna attività poteva aprire senza l’autorizzazione dei Piromalli. In particolare, viene citato il caso di una rivendita di pesce surgelato, inizialmente bloccata dai fratelli di Pino perché ritenuta concorrenza a un’altra attività protetta dalla cosca. Una conferma ulteriore del fatto che la ‘ndrangheta non solo gestisce il racket delle estorsioni, ma decide chi può fare impresa e come.
La frattura familiare e l’accusa: «Mi avete sfruttato per 60 anni»
Il malcontento di Pino Piromalli, costretto in carcere all’isolamento, si è manifestato in più occasioni, anche in un dialogo con la figlia, dove denuncia apertamente lo sfruttamento subito dalla sua stessa famiglia. “Vi siete arricchiti con le mie spalle”, afferma in una conversazione intercettata, accusando i fratelli di averlo abbandonato e di essersi spartiti i proventi delle attività illecite, comprese quelle legate al porto di Gioia Tauro, da sempre strategico per gli interessi della cosca.
Pino riteneva di essere l’unico titolato a riscuotere i soldi provenienti dal porto, considerandolo suo “territorio esclusivo” criminale. La gestione arbitraria di tali risorse da parte del nipote Gioacchino Piromalli ha ulteriormente aggravato le fratture, suscitando indignazione anche in altri sodali storici, come Zito Antonio.
«Quella condotta trent’anni fa sarebbe costata la vita»
In alcune conversazioni è lo stesso Zito a riconoscere come, in passato, comportamenti simili a quelli di Gioacchino avrebbero comportato la morte per mano della cosca. Ma oggi, per rispetto del “cognome Piromalli”, si sarebbe preferita la tolleranza. Una tolleranza carica di rancore e consapevolezza del decadimento dell’etica mafiosa tradizionale.
I legami con il carcere e le informazioni sulle indagini
Altro elemento chiave emerso dall’operazione è la rete di contatti che permetteva agli affiliati di ottenere informazioni sulle indagini in corso, spesso tramite canali non ufficiali. Una forma di “delazione passiva” che ha permesso ai vertici della ‘ndrangheta di prevenire e aggirare le attività investigative. La bonifica sistematica di luoghi e mezzi, la cautela ossessiva nei dialoghi, e la scelta di luoghi appartati per incontrarsi confermano una diffidenza radicata nella consapevolezza di essere sempre sorvegliati.
Il dovere mafioso di assistere i sodali detenuti
Uno degli aspetti più critici che ha alimentato le divisioni interne riguarda la mancata assistenza ai detenuti affiliati. Un principio cardine per ogni consorteria mafiosa: chi è arrestato, deve ricevere sostegno economico per sé e la propria famiglia. Pino Piromalli ha accusato i fratelli di aver violato questo patto, contribuendo così all’erosione del vincolo associativo. A invertire questa rotta sarà poi Giuseppe Piromalli il quale, risollevando l’onere dell’assistenza ai sodali, tenterà di ripristinare la credibilità dell’organizzazione.
Il rischio di fratture con le altre cosche: il caso Mancuso
La mala gestione dei rapporti con le altre famiglie, come quella dei Mancuso, è un ulteriore segnale della crisi della leadership. Gioacchino Piromalli si sarebbe rifiutato di incontrare emissari del potente clan vibonese, incrinando un equilibrio criminale che reggeva da decenni. Errori di comunicazione, e soprattutto di rispetto, in un sistema dove ogni gesto ha un valore simbolico e operativo.
Una dottrina mafiosa tradita
L’intero impianto dell’indagine restituisce la sensazione di una consorteria ancora potentissima ma profondamente lacerata. La “dottrina mafiosa”, tramandata per generazioni dai Piromalli, viene evocata dagli stessi affiliati come valore ormai smarrito. Una lezione che affonda le radici negli aneddoti del passato, come quello dello zio Mommo che ammoniva il fratello: «Vuoi essere un Piromalli? Allora devi esserlo fino in fondo. Non solo quando ti conviene».
L’operazione “Res-Tauro” segna un passaggio chiave nella comprensione della criminalità organizzata calabrese: le cosche non sono solo sistemi criminali, ma organismi complessi, attraversati da dinamiche familiari, conflitti di potere e tensioni interne che possono minarne la coesione. È proprio questa spaccatura interna, più che l’azione repressiva dello Stato, a rappresentare oggi la vera fragilità della ‘ndrangheta. Una fragilità che può diventare una leva per lo smantellamento definitivo del potere mafioso.