«La violenza non sempre urla, a volte sussurra e quando sussurra, distrugge più di un pugno. C’è una violenza che non fa rumore, non spacca le ossa, non lascia lividi sulla pelle, è una violenza che passa tra le pieghe di una frase, nel gelo di un silenzio punitivo, nel peso di una colpa che la vittima non ha mai avuto; è sottile, fredda e calibrata: si infiltra in un monologo, in un silenzio, in uno sguardo che punisce. A volte ha il suono di un «stai esagerando», ripetuto così spesso da diventare una condanna che stringe l’identità fino a deformarla.

È un’ombra che entra in casa senza far rumore, silenziosa e crudele, che plasma e distrugge scavando nella mente più di qualunque graffio sulla pelle. È la violenza che alza il dubbio. Il manipolatore – spesso con tratti narcisistici – non colpisce con la forza, colpisce con il controllo, non usa le mani, usa le parole; non crea ferite visibili, le nasconde dentro.

Così una donna smette di riconoscersi, non si accorge del confine oltre il quale ha iniziato a vivere in una gabbia emotiva senza sbarre, ma con muri che si stringono ogni giorno un po’ di più sino a soffocarla e, quando la gabbia è invisibile, non si scappa e la fuga è più difficile. Questa violenza devasta, la casa diventa un vulcano: in superficie calma, dentro esplosiva.

La nostra società, purtroppo, vuole prove, vuole lividi da fotografare, referti da mostrare, ma la ferita che non si vede non si può fotografare. Si sente. Si consuma, cancellando identità, libertà, dignità. Eppure, la legge la riconosce. La Convenzione di Istanbul, il Codice Rosso, la Legge sul femminicidio: tutto ci dice che la violenza psicologica è violenza, e che il danno psichico è pienamente equiparabile al danno fisico.

Dobbiamo riconoscere a gran voce questa violenza; Isabelle Allende lo ha scritto con una precisione che brucia: «Non c’è dolore più grande di quello che non si vede».

Oggi abbiamo il dovere — morale prima ancora che giuridico — di dire le cose come stanno. La violenza psicologica non è un capriccio, non è un eccesso di sensibilità, non è una litigata di coppia. È abuso, è violenza di genere, è un attentato alla libertà emotiva e mentale di una donna, è una minaccia per i figli, è una ferita collettiva che nessuna società civile può permettersi di ignorare.

Se riconoscerla, nominarla, denunciarla: è il primo passo; proteggere, ascoltare, credere: è il secondo. Cambiare la cultura che ancora la tollera: è il traguardo.

Perché la violenza non è solo ciò che spezza il corpo, è ciò che spegne la luce negli occhi e quella luce, ogni giorno, va difesa».


* di Elena Maria Cozzupoli, Responsabile Enti Locali Don Milani