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All’Arechi di Salerno è andata in scena una resa dei conti che va oltre il campo: il tramonto di un sistema logoro, in cui il calcio finisce schiacciato sotto il peso di logiche politiche, compromessi e sentenze a orologeria. Sul tabellone resta il verdetto: Salernitana retrocessa, Sampdoria salva. Ma il bilancio vero è un altro: a uscire sconfitto è il calcio italiano e chi lo amministra.
La storia è ormai nota, eppure inaccettabile. La Sampdoria, retrocessa sul campo al termine della stagione regolare, è stata ripescata grazie ai guai amministrativi altrui e a sentenze pronunciate a campionato già concluso. La Salernitana, a sua volta, si è trovata costretta a disputare un playout mai previsto, mai calendarizzato, frutto dell’ennesima giravolta burocratica.
La gara d’andata ha messo un’ipoteca blucerchiata sulla salvezza. Il ritorno è esploso sotto la tensione di settimane di confusione e sospetti. Ma il dramma sportivo giocato all’Arechi è solo il frutto amaro di un disastro organizzativo a monte.
È tempo di smettere i toni prudenti. Non c’è più alcuna credibilità attorno a un’organizzazione che ormai da anni trascina il calcio italiano nel caos più totale. Campionati falsati da penalizzazioni comminate a stagione in corso, ricorsi che modificano classifiche a torneo finito, società ammesse o escluse sulla base di carte bollate e cavilli giuridici. Ogni estate diventa l’arena grottesca di processi infiniti, in cui il merito sportivo è solo un elemento accessorio, se non addirittura marginale.
Quello che dovrebbe essere il principio cardine, il campo come unico giudice, è stato svuotato di senso. Il sistema è ostaggio di commissioni, tribunali, organi federali incapaci di emettere sentenze chiare e rapide. Il risultato è un calcio schizofrenico, dove società e tifoserie vivono per mesi nell’incertezza, in attesa dell’ennesima sentenza last-minute che riscrive destini e bilanci. La vicenda Salernitana-Sampdoria è solo l’ultimo, gravissimo, episodio di una lunga catena di scelte scellerate.
Ciò che si è consumato all’Arechi non riguarda più nemmeno il risultato sportivo. Riguarda la morte della fiducia. Perché senza regole certe, senza tempi chiari, senza la certezza che il campionato si decida sul campo, il calcio perde il suo senso. Non è più sport: è amministrazione arbitraria del potere. Chi oggi siede nei palazzi della FIGC è il responsabile diretto di questo disastro e il tempo degli alibi è finito.
L’Italia calcistica ha bisogno di un’operazione di bonifica radicale. Non serve un maquillage di norme o un nuovo slogan sulla sostenibilità. Serve un reset completo: regole scritte e inappellabili, verifiche finanziarie serie a inizio stagione, processi rapidi e definitivi. Soprattutto, serve il ritorno alla centralità del campo.
Perché senza il campo, senza il rispetto per il merito sportivo, il calcio non è altro che una liturgia vuota, un teatrino autoreferenziale. L’agonia è sotto gli occhi di tutti. Solo Gravina sembra non vederla.

