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Ha giocato a Reggio Calabria con l’umiltà di chi ha fame, e con la testa già proiettata in alto. Francesco Acerbi arrivò alla Reggina nel 2010, in prestito dal Genoa, e in amaranto si fece notare per la sua personalità e solidità. In quella stagione, disputò 40 partite e segnò due gol, trascinando i calabresi ai playoff, anche se il sogno Serie A svanì in semifinale contro il Novara.
Ma quel ragazzo alto e testardo, che sembrava avere già visto troppo per la sua età, era destinato a molto di più. Lo ha dimostrato col tempo, e lo ha urlato al mondo con un colpo di testa al 93’ contro il Barcellona, nella semifinale di Champions League. Un gol che ha cambiato la partita, la stagione, forse anche il destino.
Un gol che nasce da anni di sofferenza: due tumori superati, un dolore profondo per la perdita del padre, un abisso chiamato depressione. Acerbi è risalito senza clamori, con il passo lento e sicuro di chi conosce il valore delle cose. Lo ha scritto Massimo Gramellini: «Che ci faceva Acerbi lì, in area, all’ultimo secondo?». Forse cercava qualcosa. Forse, quel qualcosa lo ha trovato.
Dal Granillo al Meazza, Acerbi ha portato con sé le cicatrici, le esperienze, e anche un pezzo di Reggio Calabria. Perché certi luoghi, certe maglie, restano addosso. Oggi, quel difensore che da ragazzo sembrava fragile, è diventato monumento di forza.
Ha segnato un gol. Ma, prima di tutto, ha scritto una storia.

