Nel reportage «Emergenza Carceri», prosegue l’indagine sulle condizioni del sistema penitenziario italiano, sempre più al centro di tensioni, sovraffollamento e dibattiti irrisolti. Al di là dei numeri e delle statistiche, il tema tocca la sostanza stessa della nostra civiltà giuridica: la capacità – o l’incapacità – di coniugare sicurezza e umanità, pena e rieducazione.

Tra le voci che hanno arricchito il confronto, quella dell’avvocato Pasquale Cananzi, responsabile scientifico della Camera Minorile di Reggio Calabria, offre una prospettiva profonda e originale. La sua riflessione «Relazionarsi nella (dis)continuità – Un percorso (anche) per la logica della pena» affronta con rigore e sensibilità il nodo centrale della questione penitenziaria: come restituire senso umano e civile alla pena, restituendo dignità sia alla vittima che al reo.

«Il continuo affastellarsi di notizie e di preoccupazioni contrapposte fra “emergenza carceri” da un lato ed “emergenza sociale” dall’altro deve farci riflettere. Va scelto però un punto di vista, cercando di avere il coraggio di affacciarsi sempre alla stessa finestra della vita, proprio da quel punto di vista, per poter confrontare due diverse sfaccettature della stessa realtà».

Emergenza carceri, emergenza umanità

Se non v’è dubbio che sia emergenza la protezione di ogni cittadino dai fenomeni criminosi, è altrettanto certo che i luoghi della pena più afflittiva – le carceri – devono poter funzionare garantendo il permanere di umanità. In entrambi i casi, infatti, la negazione dell’umanità è il vero pericolo da cui guardarsi.

Fa gridare allo scandalo, oltre che alla vendetta, il rosso del sangue versato della vittima. Ma fa male anche vedere il nero della putrescenza della «carne umana» tenuta in cattività, dove l’inedia si fa disperazione e voglia di rivalsa, non sempre in direzione costruttiva.

Il punto di osservazione: l’uomo

«Quale può essere, quindi, il punto di osservazione che garantisca una lettura umanamente sopportabile dei due volti del delitto? Se entrambi i temi sono legati alla negazione di umanità, necessariamente dovrà essere quello di mantenere al centro della visuale l’uomo».

Nelle più antiche letture del fenomeno criminale, «delitto e castigo» camminano insieme. Partendo dall’uomo, lo statuto della vittima deve imporre di esaminare perché è diventata tale. Ogni delitto nasce da un vuoto di umanità: quello del reo che agisce, quello della vittima che perde sé stessa e quello della comunità che ha permesso che quel vuoto si aprisse.

La condizione del reo e il rischio della vendetta

Affrontare il tema del reo è scomodo, ma necessario. Limitarsi alla reclusione come mera «vendetta sociale» non spezza la catena del crimine. Il reo perde sé stesso, affidato a un sistema che lo «gestisce», e può arrivare a negarsi radicalmente. «L’uomo al centro significa che ogni percorso – quello della vittima e quello del reo – deve essere calibrato sul destinatario dell’intervento».

La vittima e il reo: due percorsi, non due ruoli fissi

La vittima non deve restare tale per sempre: deve ritrovare la libertà di vivere, malgrado le cicatrici. Il reo, d’altra parte, non può essere condannato a vivere solo come autore di un delitto. Se entrambi restano prigionieri dei rispettivi ruoli, anche la società lo diventa. «Qualunque tipo di pena, dalla più dura alla più lieve, presuppone che sia a misura d’uomo. Se imprigionasse vittima e reo nei loro ruoli, finirebbe per affossare l’intera società sotto il peso del passato».

Imparare dall’accaduto

Non si può tornare indietro nel tempo, ma si può imparare dal dolore. Ogni fatto-reato, per quanto ignominioso, può diventare un’occasione di consapevolezza collettiva. La pena non deve chiudere, ma aprire alla possibilità di ricominciare. «Tanto il percorso esistenziale della vittima quanto quello del reo sono “corsi”, non fermate. L’accaduto può rendere quel percorso accidentato, ma prosegue. Perfino quello di coloro che perdono la vita».

Due esempi che illuminano la coscienza

Cananzi cita due figure simboliche: Franca Viola, che rifiutò il «matrimonio riparatore», aprendo la strada a una svolta legislativa e culturale, e Santa Maria Goretti, che morì pur di non cedere alla violenza e il cui carnefice divenne poi testimone del suo messaggio.

In entrambi i casi, la società ha saputo trasformare il dolore in percorso, il reato in crescita collettiva. «Nessuna delle due vittime, quindi, sotto questo punto di vista, è morta. Entrambe continuano a camminare nella nostra coscienza, illuminando le nostre scelte con il fulgore delle loro».

Continuare a vivere dopo la pena

Non c’è «vuoto di umanità» ma ricchezza nel superamento del fatto-reato, spiega Cananzi. Il reo che prosegue nel suo percorso di consapevolezza evita di trasformarsi in una maschera, in «cattivo per sempre». Chi invece rifiuta di confrontarsi con i propri errori resta prigioniero del reato stesso. «La differenza sta nel continuare a fare fluire l’esistenza, evitando i blocchi e i vuoti di umanità, e utilizzando l’accaduto per rendere tutto migliore».

Oltre la divisione tra buoni e cattivi

Questa non è una prospettiva «buonista», spiega l’avvocato, ma una visione realista e civile. Mettere l’uomo al centro significa riconoscere che la collettività non è neutra: contiene dentro di sé il reato, la vittima e il colpevole, e deve assumersi la responsabilità di ricomporre le fratture. «Serve il coraggio di assumersi il peso della nostra umanità – fatta di vittime, di rei e della collettività tutta – e provare a risolvere i problemi. Si va oltre il solo gettare la polvere sotto il tappeto».

Cananzi conclude lasciando aperta la strada a una riflessione ulteriore: «Proveremo perciò a tracciare i percorsi dello schema relazionale che se ne traggono e i concreti possibili sbocchi della sua utilizzazione. Ma è quello che faremo nella prossima riflessione».

L’intervento dell’avvocato Pasquale Cananzi si impone come una lezione di civiltà giuridica e umana: la pena, per avere senso, deve restituire vita, non negarla. Nel momento in cui il sistema penitenziario italiano è schiacciato da sovraffollamento e disagio, la sua voce richiama tutti – istituzioni e cittadini – a un principio semplice ma rivoluzionario: «Rimettere l’uomo al centro è l’unico modo per rendere giustizia davvero».