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«Giudicare e indagare sono ruoli diversi. Ed è tempo di riconoscerlo con chiarezza». È con questa convinzione che Nico D’Ascola, professore ordinario di diritto penale e avvocato penalista, aveva commentato i termini della riforma, che oggi arriva al terzo via libera, in particolare alla separazione delle carriere tra magistratura inquirente e giudicante, proposta dal governo Meloni. Lo fa da Reggio Calabria, dove ha ripercorso le tappe di una battaglia che dura da oltre trent’anni.
«Già nel 1987, al congresso dell’Unione delle Camere Penali a Bari, si avvertiva l’esigenza di rivedere l’assetto della magistratura», racconta D’Ascola. «Si attendeva l’introduzione del nuovo codice di procedura penale e la questione si pose già allora in termini che potrei dire attuali: a distanza di tanti anni, non è cambiato nulla. Dinanzi all’affermazione che l’unico metodo di formazione della prova fosse il contraddittorio tra le parti, ci si interrogò su come tale principio potesse essere rispettato se, da un lato, vi era il pubblico ministero e, dall’altro, il difensore, entrambi davanti a un giudice che rischiava di vedere offuscata la propria imparzialità da stretti rapporti di carriera».
Ma come garantire l’imparzialità del giudice, se condivide percorsi di carriera con il pubblico ministero?
Secondo D’Ascola, il problema è strutturale e riguarda «i legami interni ai distretti giudiziari e al Consiglio Superiore della Magistratura», che renderebbero meno netta la distinzione tra chi indaga e chi giudica. Una situazione che — sottolinea — mina alla radice il principio costituzionale di imparzialità del giudice. «Non c’è nessuna norma nella Costituzione che imponga l’unitarietà delle carriere. È una costruzione storica, non un dogma», spiega il professore. «Anzi, fu proprio il nuovo codice a rendere evidente che si doveva voltare pagina. Eppure, ci sono voluti decenni. Già allora sembrò evidente che si dovesse superare l’unitarietà delle carriere. Nessuna norma della Carta stabilisce che le due articolazioni della magistratura debbano restare unite. Era un’esigenza collegata all’entrata in vigore del nuovo codice, che altrimenti avrebbe falsificato il contraddittorio».
La resistenza più forte? Quella della magistratura stessa, secondo D’Ascola: «È comprensibile. Ognuno difende le proprie prerogative. Ma la verità è che separare i ruoli non significa togliere potere, significa distribuire responsabilità secondo competenze. Tuttavia, mentre noi siamo per una regolamentazione oggettiva che metta tutti sullo stesso piano, dall’altra parte spesso si dice: «Perdiamo potere, perché non potremmo più giudicare».
Infine, respinge l’obiezione di chi teme una perdita di qualità nel giudizio: «Non tutti i pubblici ministeri hanno le qualità per giudicare, così come non tutti i giudici sarebbero bravi inquirenti. Le due funzioni richiedono mentalità diverse. È tempo di prenderne atto. Il giudicare richiede qualità che non appartengono necessariamente al pubblico ministero. Lo dimostrano le tante indagini poi bocciate. Un conto è fare accertamenti, altro è affermare una verità oggettiva. I pubblici ministeri hanno maturato criteri di valutazione della prova e una mentalità coerente con il loro ruolo, ma non compatibile con quello del giudice. Si può essere ottimi magistrati per condurre indagini, oppure no, ma questo non significa avere anche le qualità del giudicante».
Con la riforma che avanza spedita nonostante le opposizioni interne al mondo giudiziario, le parole di D’Ascola assumono il peso di una testimonianza storica. «Non c’è nessuna norma nella Costituzione che imponga l’unitarietà delle carriere. È una costruzione storica, non un dogma», spiega il professore.

