Durante l’intervento la Presidente della Commissione Pari Opportunità dell’Ordine degli Avvocati di Reggio Calabria, ha offerto una riflessione approfondita e rigorosa sul tema della vittimizzazione secondaria, fenomeno spesso ignorato ma centrale nel percorso di tutela delle donne che subiscono violenza
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Nel suo intervento al convegno Mai più sola, Saveria Cusumano, Presidente della CPO dell’Ordine degli Avvocati di Reggio Calabria, ha scelto di accendere i riflettori su una delle questioni più delicate e meno discusse nell’ambito della violenza di genere: la vittimizzazione secondaria. Un fenomeno che, troppo spesso, trasforma la donna in vittima per la seconda volta, questa volta non per mano dell’autore della violenza, ma per effetto della risposta della società e delle istituzioni.
«Si parla spesso della vittimizzazione primaria, espressione utilizzata per far riferimento al complesso delle conseguenze pregiudizievoli di tipo fisico, psicologico, economico e sociale prodotte sulla vittima direttamente dal reato subìto, variamente modulate in relazione all’età, alla predisposizione genetica e alle caratteristiche psicologiche di ciascuno; di contro, si parla molto meno di quella secondaria, cioè di quelle sofferenze aggiuntive causate dalla risposta della società e delle istituzioni nella violenza di genere; in altre parole, quelle indirettamente connesse al reato e discendenti dal contatto tra la vittima e il sistema delle istituzioni in generale, e quello della giustizia penale in particolare.
Troppo spesso succede che le vittime diventino tali una seconda volta per effetto dei metodi usati nei loro confronti dalle forze di polizia e dagli appartenenti al sistema giudiziario e che può includere l’indifferenza, la colpevolizzazione o il pregiudizio.
Non tutti i giudici, avvocati, forze dell’ordine, assistenti sociali, consulenti conoscono il ciclo della violenza e pertanto l’ambivalenza della donna, l’alternanza della donna tra il denunciare e minimizzare i fatti, addirittura la difficoltà della stessa vittima a riconoscere la violenza.
Negli interrogatori delle forze dell’ordine si parla spesso di “lite familiare”, di “litigiosità”, di “incomprensioni”, derubricando e attribuendo minore importanza agli episodi di violenza.
Nelle aule giudiziarie penali la protagonista del processo è la donna, che viene interrogata sui suoi comportamenti, sulle proprie abitudini, deresponsabilizzando in questo modo le azioni dei violenti.
In sostanza, il rischio di vittimizzazione secondaria si verifica sia nei contesti legali (es.: essere interrogati in modo colpevolizzante, essere vittima di accuse di alienazione parentale o subire processi che non tengono conto del vissuto della vittima), sia nei contesti sociali e mediatici (es.: essere oggetto di commenti minimizzanti, giudicanti, che colpevolizzano la vittima, ad esempio attraverso i social media). È come dire a una donna vittima di violenza che la “colpa” è (anche) sua.
Una definizione di vittimizzazione secondaria è stata offerta anche dalla Corte Costituzionale con la pronuncia n. 92 del 2018, individuandola in quel processo che porta la persona offesa «a rivivere i sentimenti di paura, di ansia e di dolore provati al momento della commissione del fatto». Definizione, questa, che è stata ripresa e richiamata successivamente in alcune pronunce della Corte di Cassazione.
Proprio per le conseguenze cui può spingere la vittima questa forma di vittimizzazione, in primis non denunciare, sia il legislatore nazionale che quello internazionale se ne occupano, attuando normative e strumenti per prevenire e mitigare i danni emotivi e psicologici che le vittime possono subire a causa della risposta istituzionale al reato.
A livello internazionale, la Direttiva 2012/29/UE e la Convenzione di Istanbul sono strumenti chiave che impongono agli Stati membri di tutelare le vittime da ulteriori sofferenze. A livello nazionale, sono state introdotte riforme procedurali e si è data definizione di «vulnerabilità» per garantire una tutela più specifica.
In particolare, la Direttiva 2012/29/UE sancisce che gli Stati sono tenuti a salvaguardare la dignità delle vittime durante interrogatori e testimonianze, proteggerle fisicamente e garantire che non vi siano contatti non necessari con l'autore del reato.
La Convenzione di Istanbul (ratificata dall'Italia con la Legge n. 77 del 2013 ed entrata in vigore il 1° agosto 2014), all’articolo 18, stabilisce che gli Stati firmatari si impegnano ad «evitare la vittimizzazione secondaria». Questo ha portato in molti Paesi, tra cui l’Italia, alla creazione di protocolli specifici per forze dell’ordine, operatori sanitari e magistrati, al fine di ridurre la vittimizzazione secondaria durante le fasi investigative e giudiziarie.
In Italia non esiste un’unica legge che si occupi specificamente di vittimizzazione secondaria, ma diverse leggi e direttive concorrono a contrastarla, soprattutto quelle che riguardano la violenza di genere e la tutela dei soggetti vulnerabili. A titolo esemplificativo possiamo menzionare la legge 77 del 2013 che ha recepito la Convenzione di Istanbul; il D.L.vo 15 dicembre 2015 n. 212, che ha recepito la direttiva 2012/29/UE, introducendo all’art. 90-quater c.p.p. la nozione di «condizione di particolare vulnerabilità della persona offesa».
Ancora, la legge 168/2023 ha rafforzato la tutela delle vittime attraverso diverse misure, tra cui l'ammonimento del questore anche senza querela, l’allontanamento urgente dalla casa familiare su disposizione del PM, l'accelerazione dei processi e la creazione di un sistema di prevenzione basato su «reati spia». Ed ancora, la riforma Cartabia ha introdotto disposizioni specifiche per evitare la vittimizzazione secondaria delle vittime di violenza, soprattutto nelle fasi del procedimento civile, come l'affidamento dei figli o la mediazione.
A ben vedere, sono tutte leggi che hanno rivestito e rivestono un ruolo cardine nella lotta alla violenza, con l'obiettivo principale di proteggere le donne da ogni forma di violenza, punire i trasgressori attraverso misure giuridiche e, soprattutto, prevenire tali atti con adeguate politiche di sostegno.
Tuttavia, al fine di riuscire a porre un argine alla violenza in genere e, dunque, anche alla vittimizzazione secondaria, è necessario, come bene evidenzia la Convenzione di Istanbul, promuovere cambiamenti socio-culturali per eliminare i pregiudizi e gli stereotipi di genere.
La protezione, certamente, non può essere generica, perché ogni vittima ha proprie caratteristiche personali ed è stata soggetta a una determinata vittimizzazione. Solo una valutazione individuale, svolta al più presto, può permettere di riconoscere efficacemente tale rischio. Tale valutazione dovrebbe essere effettuata per tutte le vittime allo scopo di stabilire se corrono il rischio di vittimizzazione secondaria.
Tra le misure che la Convenzione «individua» ce n’è una che, a mio avviso, può essere determinante nel contrasto al fenomeno: la formazione dei professionisti, siano essi operatori sociali, avvocati, magistrati o forze di polizia, che lavorano a contatto con le vittime nella prevenzione e nell’individuazione della violenza. Solo una formazione specifica e capillare può consentire di individuare, riconoscere e affrontare la violenza, senza perpetrare stereotipi o atteggiamenti colpevolizzanti».

